Resistenza
Jacon, il partigiano siciliano morto a Biella per non tradire la Resistenza
Era tra i garibaldini della Zoppis. Un suo compaesano repubblichino gli promise di risparmiarlo se avesse cambiato fronte abbandonando i compagni. Rifiutò: «Non posso salvarmi da solo». E la sua storia è il simbolo del contributo delle regioni del Sud alla lotta antifascista
Capiva il bielèis a stento quando si unì alla Resistenza. Eppure, per Jacon il distaccamento garibaldino Zoppis diventò subito una famiglia. E scelse di morire pur di non abbandonare i compagni. «Salvarmi vuol dire dannarmi», disse al comandante del contingente fascista, suo compaesano, addetto alla sorveglianza dei 33 partigiani catturati mentre riposavano in una cascina tra le colline del Monferrato, in Piemonte, stremati da giorni di cammino con i fucili in spalla e i fazzoletti rossi al collo. «Ho deciso di non tradire. Io sono del Sud, sono della Sicilia e quando noi diamo una parola è quella».
Giovanni Ortoleva, Jacon il nome di battaglia da quando prese parte alla lotta per la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, era l’unico meridionale tra i partigiani ammazzati a Salussola all’alba del 9 marzo 1945, poche settimane prima della fine della Seconda guerra mondiale, mentre l’armata tedesca si ritirava dal Nord protetta dagli irriducibili di Salò. Arrivava da Isnello, un piccolo comune vicino Palermo, tra le montagne delle Madonìe, che lasciò quando Mussolini portò l’Italia in guerra.
Quarto di sette figli, due maschi e cinque femmine, è un ragazzo come tanti finché la morte improvvisa del padre non lo costringe, ancora adolescente, a diventare il capofamiglia. A febbraio del 1942 Jacon, neanche ventunenne, dice addio alla sua terra ed entra a far parte del 117° reggimento di artiglieria, fino all’Armistizio, firmato nella frazione siracusana di Cassibile.
Quando l’Italia si arrende incondizionatamente agli Alleati, l’esercito è allo sbando. Migliaia di giovani in divisa sono senza patria, né ragioni per cui combattere. I tedeschi, amici fino a poco prima, sono diventati avversari da cui scappare per evitare i campi di prigionia. Tra i soldati senza più un comando, in cerca di un rifugio, c’è anche Jacon che in fuga dal sud della Francia si dirige verso la pianura piemontese. Per 10 mesi rimane nascosto nelle campagne di Crevalcore, protetto da una famiglia che saluta con amarezza quando i rastrellamenti dei tedeschi si fanno troppo vicini. A giugno o luglio del 1944 - i documenti sono imprecisi a testimonianza degli anni frenetici e dolorosi della storia d’Italia - passa al distaccamento garibaldino Zoppis, 109° brigata Tellaroli, della XII° divisione d’assalto Nedo che si chiamava così in ricordo del comandante “Nedo”, Pietro Pajetta, morto in uno scontro a fuoco con i fascisti, il cui corpo è rimasto per giorni abbandonato sulla neve.
Dopo l’8 settembre per tanti giovani italiani unirsi alla Resistenza è una necessità. Resa ancora più urgente dalla chiamata alle armi indetta dalla Repubblica di Salò. La morte, invece, per Jacon arriva come l’unica conseguenza possibile di una scelta consapevole e dignitosa, per rispondere alla ferocia fascista, pur di non arrendersi al nemico, per non tradire i compagni: ventuno dei trentatré partigiani del distaccamento Zoppis, fucilati dai militari del 155° battaglione Montebello, martoriati e poi abbandonati vicino alla piazza principale del paese nei pressi del torrente Elvo, senza nessuna pietà.
Come ha raccontato per 50 anni “Pittore”, Sergio Canuto Rosa, l’unico partigiano sopravvissuto all’eccidio di Salussola, «Jacon è stato il primo a essere portato via». Tra lui e il comandante del contingente addetto alla sorveglianza, che proveniva da Isnello, ci sono molti colloqui. Dopo l’ultimo, il partigiano siciliano dice ai compagni che potrebbe salvarsi se accettasse di passare dalla parte dei fascisti. Ma non lo fa.
«Lo guardammo sbalorditi e perplessi, nessuno parlò, nemmeno il commissario di distaccamento: sapevamo tutti che avrebbe potuto essere una scelta tra la vita e la morte. Ci guardava ad uno ad uno come se si aspettasse una parola, un consiglio, poi ruppe il silenzio con voce che tradiva il pianto mentre accarezzava le mostrine partigiane: “Non posso, questa è la mia divisa e i miei compagni siete voi, siete i miei amici, qualunque sia la nostra sorte, io sarò al vostro fianco”. La scelta era fatta, ci stringemmo attorno a lui commossi: eravamo fieri di quel nostro compagno che, lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, non aveva tradito». Così riferì “Pittore”, ancora stordito dal terrore e dalle percosse, quando raggiunse, dopo una lunga fuga, il comando dei partigiani della quinta divisione Garibaldi, a Sala Biellese, secondo la versione della staffetta partigiana e scrittrice Cesarina Bracco.
Così riporta il giornalista siciliano Antonio Ortoleva, autore del libro “Non posso salvarmi da solo”, edito da Navarra, che ricostruisce la storia di Jacon e dei suoi compagni.
«Partigiano per caso, eroe civile per scelta», spiega Ortoleva: Jacon diventa un simbolo di Resistenza per la forza morale che tira fuori nel modo più semplice possibile. «Come conseguenza di una scelta umana di un ragazzo poco più che ventenne che non aveva neanche la quinta elementare e nessun background politico-culturale, si tratta di una scelta che ha a che fare con la carne». Ma anche perché è la testimonianza che la lotta per la Liberazione dell’Italia è stata una faccenda nazionale. In Piemonte, che fu il vero cuore della Resistenza, soprattutto nelle valli, sono stati censiti settemila partigiani provenienti dalle sei regioni meridionali sui 40 mila in azione nelle 50 divisioni sul territorio, senza contare i figli nati al Nord delle numerose famiglie di emigrati.
L’apporto che il Sud ha dato al movimento partigiano è stato ben più di un contributo. È stata vera e propria partecipazione. L’hanno chiarito anche l’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani di Italia, e il suo presidente emerito, appena scomparso, Carlo Smuraglia che ha scritto: «Molti pensano che la Sicilia sia estranea alla Resistenza e la apprezzano più per le sue bellezze storiche e ambientali... È un grave errore, frutto di scarsa conoscenza storica e di antichi pregiudizi. È un grave errore che tutti dobbiamo contribuire a correggere, anche sul piano politico, culturale e storico».
Terra martire del’43, la Sicilia è stata la regione con più vittime civili fino all’armistizio dell’8 settembre. Oltre ottomila senza contare i feriti, i dispersi e i mutilati, secondo l’Istat. Perché le truppe inglesi e americane prima dello sbarco hanno seminato il panico tra la popolazione con lo scopo di fiaccare la fiducia nel governo mussoliniano.
Ma è stata anche una terra in cui la ribellione è scoppiata prima del tempo, come avvenne a Mascalucia nell’agosto del 1943 quando, ancor prima delle quattro giornate che portarono alla liberazione di Napoli, gli abitanti del paese alle pendici dell’Etna hanno imbracciato i fucili e scacciato i tedeschi che si preparavano alla ritirata. In Sicilia ha avuto luogo un conflitto che è durato ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Perché i partigiani, e chi ha respirato gli ideali della lotta di liberazione nazionale, hanno dovuto resistere e combattere contro un altro nemico: la mafia. Un’altra guerra che ha prodotto la scia di sangue innocente che da Portella della Ginestra, dalla repressione della rivolta contadina, arriva allo stragismo degli anni Novanta.
Così i principi che hanno dato forma alla Repubblica e alla Costituzione, trasformato l’Italia in un Paese moderno, sono il risultato dell’impegno di tutto il popolo: dalla Valsesia in Piemonte, al Gargano in Puglia, alle Madonìe. E la storia di Jacon è importante per ricordarlo. Per celebrare la forza di chi, pur potendo, non ha girato lo sguardo, né tradito le proprie idee e i compagni con cui lottava per realizzarle.