In prima fila ci sono i cani. I cani che, come scriveva Oriana Fallaci, «la notte invadevano la città. Centinaia e centinaia di cani che approfittando dell’altrui paura si rovesciavano nelle strade deserte, nelle piazze vuote, nei vicoli disabitati», e di giorno non si vedevano, «forse non esistevano perché non erano cani bensì fantasmi di cani che si materializzavano col buio per imitare gli uomini da cui erano stati uccisi». È l’incipit di “Insciallah”, forse il libro più famoso della scrittrice e giornalista toscana. I cani dovevano accogliere il lettore sulla copertina del romanzo disegnata nel 1990 da Marco Ventura. Copertina che non si fece mai, come ben sa chi ricorda il grigio perla che circonda, sul volume Rizzoli, i due unici elementi grafici: il nome dell’autrice in nero a caratteri cubitali e il titolo, più piccolo ma tutto in maiuscole, in rosso sangue.
«Era la primavera del ‘90», ricorda Ventura. «Mi chiama Giovanni Ungarelli, il direttore editoriale, e mi dice che c’è da fare una copertina e che devo parlarne direttamente con l’autrice». Non è il primo lavoro con la Rizzoli per Ventura, figlio e fratello d’arte (il padre Piero è stato un famoso illustratore per bambini, il fratello Andrea è il ritrattista di fiducia del New Yorker, l’altro fratello Paolo è fotografo e pittore). Ha già firmato varie copertine con personaggi dipinti ad olio, come quella di “Quando eravamo povera gente” di Cesare Marchi: «Lì c’erano perone diverse, anche un militare in divisa: forse per questo pensarono a me».
Se lui non era alle prime armi, lei era famosissima: aveva già pubblicato “Intervista con la storia”, “Lettera a un bambino mai nato”, “Un uomo”, la sua storia d’amore con l’antifascista greco Alekos Panagulis. “Insciallah” è destinato a rimanere l’ultimo romanzo che pubblicherà. Poco dopo Fallaci si trasferisce a New York per dedicarsi a un romanzo che lega la storia dell’Italia moderna e quella della sua famiglia. L’attentato dell’11 settembre 2001 però cambia la sua vita professionale, ispirandole due saggi veementi sullo “scontro di civiltà” tra cristianesimo e islam: “La rabbia e l’orgoglio” e “La forza della ragione”. Il romanzo interrotto, “Un cappello pieno di ciliegie”, uscirà solo dopo la sua morte, avvenuta nel 2006.
La scrittrice e l’illustratore si vedono a Firenze il 25 aprile. «Andai a casa sua, in una stanzetta dove lei stava scrivendo, e cominciò a spiegarmi come avrei dovuto fare questa copertina». Fin dalla prima telefonata, una preoccupazione: «Si raccomandò di non dire niente a nessuno del nostro incontro, del progetto e soprattutto del suo libro: “Nessuno deve sapere nulla di questo romanzo che sto scrivendo”». E infatti prima di andare a Firenze, Ventura di quel libro non sapeva nulla. E anche dopo, nel bozzetto che disegnò, sono fittizi sia il titolo che il nome dell’autore. “Amapio Rasella”, si legge in alto: lo stesso numero di lettere di Oriana Fallaci. E sotto, in stampatello, “Ischairota”: anche qui la lunghezza è la stessa di “Insciallah”. Del contenuto però qualcosa la scrittrice raccontò. E lo mise anche per iscritto: è l’elenco di nomi che pubblichiamo in queste pagine, accanto allo schema disegnato da Ventura mentre lei raccontava la trama e soprattutto descriveva i personaggi. Che sono una quantità: grazie allo schizzo disegnato dall’illustratore li possiamo identificare.
Alle spalle del cavallo, a destra, c’è Gino, poi Angelo, il protagonista, e la sua amata Ninette. Dietro, una folla di italiani e libanesi, suore e marines. In basso, quasi al centro, quello con gli occhiali tondi un po’ gramsciani è il Professore – alter ego dell’autrice – e accanto a lui c’è un’ombra. «Professore (+ ombra?)», si legge nello schema battuto a macchina dalla scrittrice. L’elenco continua con «Gigi il Candido», «Armando Mani Oro», «Dalilah e Jasmine», e poi ancora «Ferruccio e Maometto» e, aggiunto a penna da Ventura, «mamma di Maometto»: «Ma si riferiva a un personaggio, non al Profeta», assicura l’artista. «E poi c’era una bambola gonfiabile», ricorda ancora, «non mi ricordo perché ma c’era, da qualche parte»: difficile riconoscerla nella marea di volti maschili e femminili…
Ventura però capì fin dall’inizio che l’idea non era della scrittrice, che non sembrava affatto convinta: «Disse che secondo lei su un libro non doveva esserci un disegno che mostrasse il protagonista, perché il lettore doveva farsi la sua idea dell’aspetto partendo dalle descrizioni che ne faceva l’autore. E in effetti aveva ragione lei: anche a me capita spesso di pensare che i personaggi non sono come li hanno disegnati. A volte però l’atmosfera c’è: è quello che spero di ottenere con le copertine mie».
Quel giorno, comunque, anche se l’idea di copertina non la convince, Fallaci non si risparmia. «Mi ha spiegato a grandi linee la trama, e cosa faceva quel turbine di personaggi», ricorda Ventura. «Era un vulcano: recitava, declamava, si muoveva. Mi ha raccontato la storia del libro legandola alle esperienze di guerra. A un certo punto per farmi capire una scena si è sdraiata per terra e mi ha fatto vedere com’era stato colpito il personaggio, dall’alto in basso, all’interno della coscia… Mi faceva impressione vedere una donna della sua età comportarsi così, immedesimarsi così nella storia del libro. Non era alta di statura e di costituzione era esile, aveva la voce molto roca, da grande fumatrice, ma aveva un’aura che metteva soggezione: io parlando con lei mi sentivo un po’ come un soldato semplice che va dal generale o dalla regina».
Cerchiamo di immaginare la scena: una scrittrice che è già un mostro sacro, in un piccolo studio di Firenze, racconta a un giovane illustratore cosa contiene uno dei libri più misteriosi del momento, il romanzo che tutti vorrebbero leggere in anteprima: che è ambientato a Beirut, che coinvolge le forze internazionali di pace e quindi anche il contingente italiano... «Ho cominciato a fare uno specchietto con le caselle in cui posizionare i personaggi, dai cani randagi in su», ricorda Ventura. «Ma i personaggi erano troppi, quindi lei si è seduta alla macchina da scrivere, credo fosse una Olivetti 32, per fare quell’elenco. Li ha divisi in gruppi, che dovevano poi corrispondere alle sezioni dell’illustrazione».
Quindi davanti i cani, i galli, la cavalla bianca, e dietro tutti i personaggi allineati verso l’alto. I lineamenti li ha inventati Ventura basandosi solo su quel racconto orale: «Quando scriveva i nomi, la signora Fallaci mi ha fatto anche qualche descrizione, ma breve e troppo letteraria. Diceva: “Il tenente colonnello tal dei tali si vestiva sempre in modo elegante”, o “il caporal maggiore parlava sempre declamando”. E io chiedevo: “Ma era alto? Basso? Tarchiato?” E lei ripeteva quello che aveva appena detto: “Parlava ai suoi soldati sempre declamando…”». E poi la varietà di veli e copricapi: «Ci sono le donne arabe ma anche le suore, e poi gli elmetti dei soldati, con le penne o senza, e i baschi, e poi qualcuno ha il fez». Sulle divise militari Fallaci era particolarmente attenta: «Mi chiese se avessi fatto il miliare, e io lo avevo fatto proprio nel corpo dei bersaglieri che andò poi a Beirut, la divisione Ariete, e proprio negli anni tra il 1984 e l’85, quando si svolge la storia. In effetti per le divise del disegno mi sono ispirato ad alcune foto di commilitoni».
Passa qualche settimana, poi Ventura viene convocato da Ungarelli a Milano in un ristorante per incontrare di nuovo la scrittrice. «Alla fine della cena andò in camera, scese con un faldone di fogli e cominciò a leggere brani dal libro». Poco tempo dopo viene il giorno del giudizio, quando Ventura porta alla Rizzoli la sua proposta di copertina. «Ungarelli volle vederla per primo, la guardò e mi fece i complimenti. Mi disse “È bellissimo, ma purtroppo la signora oggi è di cattivo umore, quindi non so che cosa succederà”».
Il malumore era dovuto al fatto che proprio quel giorno un giornale aveva scritto che il nuovo romanzo di Oriana Fallaci era ambientato in Libano e altri particolari sulla trama. E c’era una foto di lei con il giubbotto antiproiettile, l’elmetto e la sigaretta in bocca, una foto che a lei non era piaciuta per niente. «Le ho fatto vedere il disegno», ricorda Ventura, «e per ogni faccia lei mi chiedeva: “Questo chi è?”. Io controllavo dagli appunti, rispondevo e lei scuoteva la testa: “No no no, non ci siamo”. Solo qualche rara volta ha detto: “Sì, potrebbe essere…”. Mi ricordo che le piacque la bambola gonfiabile, e pochi altri. Alla fine mi dissero “ci pensiamo, le faremo sapere”, e la cosa morì lì». In luglio il romanzo uscì con la cover minimalista che conosciamo: «Ma io tempo dopo ho ripreso i miei schizzi», continua Ventura, «ci ho montato autore e titolo con i caratteri usati nella copertina, tanto per avere l’immagine nel mio archivio. E lì l’ho ritrovata qualche settimana fa, in un cassetto».
Rimpianto per quella “copertina mai nata”? Sì, ma non del tutto: «Qualche tempo dopo ho incontrato alla Rizzoli il grafico, Enzo Aimini, che mi confidò: “Non sai cosa ci ha fatto passare per scegliere il carattere del suo nome e del titolo, e per la tonalità del grigio!”. E io mi son detto che mi era andata bene: con tutti quei volti, quei dettagli che erano nel mio bozzetto, al momento di passare ai colori a olio la signora Fallaci mi avrebbe fatto vedere i sorci verdi!».