Dal Belgio, dalla Germania, dalla Gran Bretagna: un’ondata inversa di ragazzi ritornano nel nostro Paese, delusi dalle esperienze all’estero. E si reinventano imprenditori o ripartono grazie al reddito di cittadinanza

I colori della bandiera italiana nel ristorante pizzeria La Gondola, di piazza Emile Buisset, a Charleroi, sono scoloriti accanto ai manifesti strappati delle ultime elezioni e ai rimpianti di coloro che avevano aperto un’attività non sapendo cosa sarebbe potuto accadere nell’ultimo triennio. Tra il grigio cielo del Belgio e gli alti palazzi, anche quel pezzo d’Italia ha chiuso i battenti, come accaduto a molti locali tra i tanti a matrice italiana che non sono riusciti a sopportare il peso della pandemia e della successiva crisi legata alla guerra in corso.

 

Così, quella grande valigia che per anni era stata conservata sotto al letto nella casa presa in affitto con sacrifici e sudore dopo aver abitato dai parenti, viene tirata fuori per fare il percorso inverso, nonostante il biglietto di sola andata che era stato fatto tra lacrime d’addio e fazzoletti. Il grande sogno della bella vita fuori dall’Italia, venduto da parenti e amici come la soluzione per tutti i problemi, comincia a svanire preso a schiaffi dalla realtà. E a risentirne sono soprattutto gli ultimi arrivati.

 

Cittadine dove da tempo sono state esportate tradizioni, oltre che intere famiglie, dove sventolano bandiere italiane dalle finestre e dalle auto, adesso hanno preso anche i vizi e i problemi della Penisola. Ad andare via, per ritornare in Italia, sono soprattutto coloro che erano arrivati poco tempo prima della pandemia e che sono riusciti a far fronte a tutti i problemi finché lo stop della crisi mondiale non li ha messi davanti una porta.

Vincenzo Barbera e la moglie Annarosa Catalano

«Molto spesso l’opportunità lavorativa prospettata all’inizio si è rivelata meno fruttuosa di quanto previsto. Ad esempio nei ristoranti italiani vieni sfruttato, guadagni mille e trecento o mille quattrocento euro al mese che qui non sono nulla, per 12/13 ore di lavoro al giorno», spiega Vincenzo Barbera, andato via nel 2012 subito dopo il diploma. Originario di Porto Empedocle, nell’Agrigentino, oggi lavora in una fabbrica di scatole a pochi chilometri da Stoccarda, si è sposato con Annarosa e vive felice la sua vita in Germania ma negli ultimi tempi ha salutato molti coetanei che erano arrivati da pochi anni in cerca di migliore fortuna e non sono riusciti a buttare giù il muro dell’integrazione tedesca.

 

«Per molti non è facile ritornare e anche se nessuno lo dice, alcuni per vergogna, uno dei motivi è che manca la propria terra, la propria famiglia. Anche il fattore climatico è logorante, per molti abituati al sole per 7-8 mesi, qui è il contrario. Vivere qui significa mettersi in gioco ogni giorno, avere pazienza e coraggio, prendere decisioni in una lingua che non è la tua e non è facile. Così alla fine molti dicono “chi me lo fa fare?” e poi, con l’occasione del reddito di cittadinanza, molti sono tornati, perché invece di stare qui, pagare 600 euro di affitto per una piccola casa, molti tornano nella propria abitazione di proprietà in Sicilia o in Calabria decidendo di prendere il reddito di cittadinanza e facendo qualche lavoretto in nero».

 

Con Vincenzo, che ha deciso di rimanere nonostante il rialzo dei prezzi e la non facile vita lontano dagli affetti, lavorava in Germania un altro giovane di Porto Empedocle, la terra di Camilleri e di Pirandello, e in Sicilia, come dice lo scrittore premio Nobel, “l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte”. La nostalgia del mare della Vigata di Camilleri e del Caos di Pirandello, porta così Francesco Di Stefano e salutare l’amico Vincenzo, preparare la valigia e fare la strada opposta, subito dopo la pandemia.

Barbara Garavagna

«Sono stato in Germania per otto anni dopo aver accettato una offerta di lavoro in un ristorante italiano e mi piaceva vivere là, poi, pian piano ogni mattina mi svegliavo triste e mi dicevo “mamma mia sono ancora qui”, così dopo la pandemia ho deciso di riprendere tutto e ritornare». Abituato a vedere il mare della Scala dei Turchi aprendo la finestra, per Francesco Di Stefano, 35 anni la vita era diventata soltanto lavoro: «L’appartamento, anzi la stanza, costava tra gli 800 e i 900 euro, per questo dovevo fare due o tre lavori per riuscire a vivere. Quello che non manca in Germania è il lavoro, il problema è che manca tutto il resto: non trovi una casa, il sole non c’è mai e non esistono neanche le stagioni. Affrontare la Germania non è affatto facile, quella nazione non ti regala nulla». Lavorava per vivere e gli unici soldi che metteva da parte, Francesco, li usava per tornare nella sua Vigata, così decide di ritornare definitivamente. «Durante la pandemia ho deciso di prendere le altre patenti che mi mancavo per guidare diversi mezzi e poi ho preso la valigia e sono tornato a casa, decidendo che avrei vissuto a casa mia, tra i miei affetti. Ho trovato un lavoro come camionista e adesso, finalmente, respiro aria di casa». In Germania, dove ha lasciato gli amici italiani, adesso Francesco ci torna per una vacanza e per rivedere quelle persone, per poi tornare subito nel suo Sud. Gli affetti, la lontananza di casa, i soldi che non bastano e una pandemia che ha rimesso in discussione tutti i piani fatti e acuito la solitudine delle persone.

Giusy Cipolla

Nei giorni del lockdown, in molti si sono seduti, da soli davanti la tv e hanno soppesato le cose importanti della vita, guardando con nostalgia quelle foto attaccate al frigo, riscoprendo con i brividi in corpo e gli occhi pieni di lacrime che era il momento di cambiare strada. Barbara Gravagna, palermitana, è ritornata nella sua Sicilia, «un’isola che odio e amo» dopo essere stata messa in cassa integrazione dalla ditta per la quale lavorava a Berlino, nel campo degli eventi: «Già durante il primo lockdown è come se avessi avuto uno stop dopo una vita vissuta di corsa, così ho deciso di rimettere in ordine le priorità della mia vita e ho capito che la mia isola mi mancava tanto e già cominciavo a lavorare per il ritorno e per mettermi in proprio, mettendo le basi per una nuova azienda già durante il lockdown».

 

Forte delle proprie esperienze, dopo una vita da giramondo, Barbara a quarant’anni decide di aprire una attività tutta sua a Palermo, la “Amuri events e wedding planner” per organizzare matrimoni a coloro che dall’estero decidono di scegliere la Sicilia per il loro sposalizio. «Ho messo insieme tutti i pezzi della mia vita e credo che questa attività sia la sintesi del mio percorso fatto negli anni. Adesso sta andando bene e io sono nella mia città, condivido il mio lavoro con gli altri per far crescere anche chi lavora in questo settore». Barbara non è la sola che durante lo stop forzato a causa della pandemia ha deciso di tornare indietro e mettere in discussione la sua vita: secondo l’associazione “ChEuropa” che raccoglie i dati e le storie degli “expat”, gli espatriati all’estero, dopo la pandemia, su un campione di più di mille persone che hanno fatto le valigie negli ultimi 15 anni, il 23 per cento ha rivalutato la scelta di tornare, accelerando i tempi per un rientro in Italia che non era tra i piani immediati o non era neppure tra le ipotesi. Secondo le stime della stessa associazione, dopo il lockdown 70 mila persone si sono messe già al lavoro per ritornare a casa, 300mila quelle che ci stanno pensando. Molte di queste sono del Sud Italia, dove intere città hanno vere e proprie riproduzioni all’estero, come accade per Aragona, 15mila votanti se si contano gli iscritti all’Aire e appena 8mila abitanti, nella realtà, che vivono nel paese.

 

Tra questi c’è Giusy Cipolla, trenta anni di cui sei passati a Londra come receptionist in un coworking space: «Il mio obiettivo era sin dall’inizio quello di tornar facendo tesoro delle mie esperienze per inventarmi qualcosa in Sicilia», racconta oggi dal suo paese in provincia di Agrigento. La scintilla, come accaduto anche per gli altri giovani che hanno deciso di girare il mappamondo, per fermare il dito con gli occhi lucidi nel punto a Sud dell’Italia, è stata la pandemia: «Ho capito che non stavo più bene a Londra e così con mio marito abbiamo deciso di tornare, mi avevano anche offerto il posto di manager ma io volevo tornare a casa. Il lockdown è stato il momento per riflettere su quello che avevamo e quello che avremmo potuto avere ritornando e al primo posto abbiamo messo la serenità personale».

 

Un pianto e un abbraccio e Giusy e il marito Jerry, anche lui un expat da 12 anni a Londra, originario di Ficarazzi, nel Palermitano, decidono di tornare ad Aragona per aprire una distilleria per produrre gin con prodotti del territorio: «Stando fuori ci si accorge che abbiamo un tesoro nella nostra isola e ogni giorno che passo davanti la Valle dei Templi resto meravigliata perché la guardo con occhi diversi. Ci siamo abituati e non ci accorgiamo di quello che abbiamo». Giusy e Jerry hanno preso la loro vita in mano, si sono sposati in un campo di grano e hanno deciso che quella vita volevano riprendersela in mano in una terra che, nonostante i difetti, offre tante possibilità a chi ha voglia di inventarsi qualcosa.