Il Paese ancora piegato dal default spera di sfruttare al massimo il bacino di Vaca Muerta, ma la popolazione dei mapuche denuncia inquinamento e terremoti causati dalle attività estrattive (foto di Giancarlo Ceraudo)

Per un paese che tra un default e l’altro, da ormai troppi anni ricorda con nostalgia e rimpianto quando era «il granaio del mondo», è forse arrivato il momento del riscatto. La salvezza questa volta non verrebbe dalle coltivazioni della fertile regione della pampa centrale. È invece un altopiano roccioso e semi desertico, dal nome molto poco promettente, quello che potrebbe oggi consentire all’Argentina di risollevarsi una volta per tutte dalla crisi finanziaria che la attanaglia da decenni. Si tratta del bacino di Vaca Muerta, enorme giacimento non convenzionale situato nella regione patagonica di Neuquén.

 

È considerato la seconda riserva al mondo di shale gas e la quarta al mondo di shale oil e, nell’attuale contesto geopolitico e con l’Europa alla ricerca disperata di petrolio e gas, si è trasformato in una risorsa dal valore quasi inestimabile. «Vogliamo diventare un fornitore stabile e affidabile di energia ed alimenti», ha detto poche settimane fa il presidente argentino Alberto Fernandez a ciascuno dei membri del G7 riuniti nel castello di Elmau in Baviera. In una conversazione con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, Fernandez ha parlato in particolare di un progetto per la liquefazione e il trasporto del gas di Vaca Muerta. «Lo esamineremo e vedremo se ci sono le condizioni per proseguire», ha risposto Draghi.

Con una guerra in corso, la cui conclusione non si scorge all’orizzonte, in nessuna delle due sponde dell’Atlantico si discute ad ogni modo sul fatto se estrarre petrolio e gas non convenzionali dalla roccia di scisto attraverso la tecnica del fracking sia in linea con gli obiettivi della transizione energetica e dell’Accordo di Parigi. Il ritorno del fossile, il possibile inquinamento delle falde acquifere della Patagonia e la comparsa di inediti fenomeni sismici nella regione appaiono oggi agli occhi dei governanti come un eventuale ed ulteriore danno collaterale della crisi globale causata dalla guerra. Di fronte all’urgenza dell’approvvigionamento energetico passa ad essere un dettaglio anche la sostenibilità economica del costosissimo processo di trasformazione del gas in gnl e del suo trasporto in nave da un emisfero all’altro. Interessano invece i tempi, e l’Argentina promette in questo senso che con l’aiuto di ulteriori investimenti occidentali per la costruzione di un nuovo gasdotto e di impianti di liquefazione, potrebbe essere pronta per iniziare ad esportare le sue risorse entro il 2024.

 

Se la vastità geografica della Patagonia è di per sé sconcertante, l’impatto con Vaca Muerta, già a partire dal nome, è addirittura violento. Si tratta di una distesa di terra e sassi di 30 mila chilometri che immerge in un paesaggio lunare. Un luogo apertamente ostile alla vegetazione e all’uomo, battuto dall’incessante vento patagonico che i mapuche chiamano «kuruf». Qui non si intravede spazio per altro che non sia lavoro, duro lavoro, tanto per far crescere una pianta come per estrarre oro nero dal suolo.

 

A Vaca Muerta ci si arriva dalla città di Neuquén, capoluogo dell’omonima provincia, percorrendo in direzione nord-ovest circa 100 chilometri di una strada provinciale asfaltata solo di recente. Il tragitto costeggia da una parte le pendici dello sterminato altopiano che ricopre il bacino, e dall’altra la valle del fiume da cui prendono a loro volta il nome il capoluogo e la provincia. Si tratta di un’arteria percorsa senza soluzione di continuità da centinaia di camion, camioncini e fuoristrada che trasportano materiale da costruzione, sabbia di silice per il fracking, e operai. L’unico centro abitato a cui si approda prima di arrivare a Vaca Muerta è la cittadina di Añelo. Fino a qualche anno fa era solo una manciata di case lungo una strada provinciale ancora sterrata. Oggi è una cittadina di ottomila abitanti che rischia di crescere fino a 25 mila nei prossimi anni, grazie all’incessante sviluppo dei giacimenti e dell’indotto legato all’industria petrolifera. Gli operai dei pozzi sono alloggiati in strutture modulari o in container all’interno di compound recintati come vere e proprie basi militari. Vaca Muerta non è fatta né pensata per le famiglie; è un posto di frontiera dove venire a fare soldi. L’80 per cento della popolazione è maschile, caratteristica che attrae con sé anche un fiorente business della prostituzione e della droga.

Tra la popolazione locale che non lavora nell’indotto dei giacimenti e che cerca di difendersi dall’avanzata dei pozzi e del fracking, c’è la comunità indigena mapuche. «Non siamo contro lo sviluppo, siamo contrari a come si sta portando avanti, all’inquinamento», afferma Albino Campo Maripe, il capo (lonko) di una comunità di 14 famiglie che vive ai piedi di un giacimento di Pluspetrol, a una decina di chilometri da Añelo. «Stanno contaminando i fiumi, le falde, l’aria. Quando se ne andranno lasceranno morte e contaminazione», denuncia il lonko, che da dieci anni lotta per affermare i diritti della sua gente su dodicimila ettari destinati a pastorizia e oggi cosparsi di pozzi. «Ci accusano di chiedere soldi, di voler sfruttare la situazione. Il governo dice che dove si fa un pozzo appare un mapuche ma noi non è che siamo apparsi, siamo qui da sempre, quelli che sono apparsi sono i nuovi padroni della terra, le imprese multinazionali», aggiunge. «Il petrolio un giorno finirà e quelli che rimarranno saremo noi», denuncia. La prospettiva della costruzione di una nuova pipeline ha aperto un ulteriore fronte di conflitto con la comunità mapuche. Una sentenza della corte suprema argentina obbliga lo Stato provinciale ad accogliere i reclami delle comunità originarie ma molto di rado queste si vedono riconosciuti i titoli di proprietà.

 

Fernando Cabrera, della Ong Observatorio petrolero sur (Ops), è una delle persone che più hanno seguito lo sviluppo del bacino di Vaca Muerta raccogliendo una solida documentazione sulle molteplici implicazioni negative del fracking a livello ecologico. Tre le problematiche principali riscontrate in quest’area, spiega Cabrera. La prima è l’aumento esponenziale del volume dei residui tossici della perforazione. Il riferimento è principalmente al «cutting» (il fango di perforazione), al «flowback» (il fluido di ritorno del fracking) e ai cosiddetti «fondi» dei serbatoi. «Questi, oltre a contenere le sostanze chimiche utilizzate nell’intero processo di perforazione e frattura, spesso presentano tracce di sostanze depositate nel sottosuolo. Metalli pesanti come mercurio, cromo, piombo, cadmio, arsenico; o materiali radioattivi di origine naturale come uranio, torio, radio e radon». I residui vengono attualmente riversati in discariche a cielo aperto e il rischio concreto è quello della contaminazione oltre che dell’aria anche delle falde acquifere superficiali.

 

La seconda problematica è legata alla possibilità concreta di fuoriuscite di petrolio. Una possibilità che, secondo Cabrera, è acuita notevolmente dalla complessità dei pozzi non convenzionali che prevedono trivellazioni sia in profondità che in orizzontale e che possono raggiungere un totale di 5 chilometri di lunghezza. Secondo un rilevamento recente effettuato da Ops ogni giorno si verificano almeno un «incidente ambientale» significativo e cinque incidenti minori. La terza problematica è legata alla comparsa di fenomeni sismici inediti associabili alle fasi più intense di frattura dei pozzi. Un rapporto della Ong Fundación ambiente y recursos naturales (Farn) denuncia che a partire dal 2018 si è registrato «un aumento eccezionale dell’attività sismica». Il documento dà conto di numerosi episodi, il più grave dei quali avvenuto nel 2019 nella località di Sauzal Bonito, a 20 chilometri da Añelo. Si è trattato di una scossa di magnitudo 5 della scala Richter. Se venisse dimostrato il suo legame con l’attività di frattura del suolo sarebbe il terzo terremoto mai registrato dovuto al fracking. L’epicentro di queste scosse è stato rilevato a pochi chilometri dalla superficie, a profondità analoghe a quelle dei pozzi non convenzionali.

L’ordinamento federale dell’Argentina stabilisce che le risorse naturali siano amministrate dai governi provinciali così come i proventi che derivano dal loro sfruttamento. Nell’ultimo anno le entrate delle royalties del settore petrolifero sono passate a rappresentare il 40 per cento del totale delle entrate della provincia di Neuquén contro il 20 per cento del 2021. Con questi numeri, per il governatore Omar Gutierrez le problematiche legate al fracking rappresentano evidentemente un mero dettaglio. Su Vaca Muerta, afferma il governatore, sono già stati investiti 30 miliardi di dollari e saranno necessari investimenti per altri 65 miliardi per arrivare alla produzione massima stimata in 700 mila barili di petrolio e 140 miliardi di metri cubici di gas giornalieri. Ciò che preoccupa oggi le autorità provinciali e federali è piuttosto il fatto che il bacino si sta sviluppando rapidamente in assenza di infrastrutture essenziali, come un gasdotto che permetta non solo di trasportare il gas al resto del Paese, ma anche di esportarlo.

 

La gara d’appalto per la costruzione di una pipeline di 600 chilometri è appena stata indetta. Se l’opera non verrà completata in tempo Vaca Muerta si troverà ad affrontare a breve un pericoloso collo di bottiglia. «Le infrastrutture sono al limite», ha ammonito Gutierrez. A un limite, ad ogni modo, sono arrivate anche le finanze dello Stato argentino, così come la tenuta del governo di Alberto Fernandez. L’esecutivo è infatti in balia di una feroce guerra intestina scatenata dalla vice presidente Cristina Kirchner. La crisi è sfociata all’inizio del mese nelle dimissioni del ministro dell’Economia, Martin Guzman, e il sogno di una rinascita argentina rischia adesso ancora una volta di naufragare in un default.