Dal carcere al palco: così grazie al teatro si riscattano gli ex detenuti

La Compagnia Fort Apache di Roma composta da attori con precedenti penali, il Teatro libero di Rebibbia e i tanti talenti emersi da San Vittore a Castelfranco Emilia. Ecco come l’arte aiuta a ricostruirsi una vita

«O vinci o muori, era questo il nostro destino». E in caso di caduta, fine di ogni prospettiva. Se sei difettoso, vieni abbattuto, cancellato, accantonato. Succede di continuo. Non possiamo permetterci di sbagliare, perché la società semplicemente non lo accetta. Figuriamoci se si cade a causa di un crimine. Figuriamoci se si va contro la legge e poi si finisce rinchiusi per anni in un carcere. Ripenso a quelle parole pronunciate sul palcoscenico del Teatro India di Roma, ai corpi degli attori, alle loro catene e alle bare-abbeveratoio sistemate a terra. Lo spettacolo così carnale, puntellato da picchi poetici, è “Destinazione non umana”, il nuovo lavoro della Compagnia Fort Apache Cinema Teatro, l’unica compagnia stabile costituita da attori ex detenuti, che si sono formati nelle diverse carceri di provenienza. La dirige Valentina Esposito, autrice e regista, che da oltre 20 anni conduce attività teatrali dentro e fuori le prigioni italiane, con grande costanza e passione.

 

Ricorderete sicuramente Marcello Fonte, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2018 per la sua interpretazione come attore protagonista di “Dogman”, il film di Matteo Garrone. Ecco, lui, per esempio, proviene proprio da lì, da quel groviglio di storie di vita che è Fort Apache. Ci arrivò per caso, quando morì all’improvviso un ex detenuto e lui, che faceva il custode del centro sociale romano Nuovo Cinema Palazzo, sapendo a memoria la parte, lo sostituì, diventando attore stabile della compagnia. Garrone lo vide e se ne innamorò.

 

In tanti rinascono grazie al teatro. Fra gli ex detenuti ci sono anche dei talenti, poi approdati anche al cinema, come Aniello Arena, ex ergastolano del carcere di Volterra, cresciuto professionalmente nella Compagnia della Fortezza di Armando Punzo e interprete di vari film, come “Ultras” di Francesco Lettieri. Oppure Salvatore Striano e Cosimo Rega, divenuti noti al grande pubblico soprattutto grazie al film del 2012 diretto dai fratelli Taviani “Cesare deve morire”, coprodotto dal Centro Enrico Maria Salerno che li seguiva da tempo. Entrambi, infatti, hanno recitato per anni sul palco del Teatro Libero di Rebibbia, grazie a Fabio Cavalli e a Laura Andreini Salerno, da vent’anni attivi nel carcere romano con laboratori, spettacoli, seminari. Ricordo quel pomeriggio del 2005 in cui andò in scena per la prima volta “La tempesta” di Shakespeare nella riscrittura che ne fece Eduardo De Filippo in dialetto napoletano. Fu interpretata dai detenuti del reparto di “alta sicurezza” di Rebibbia, diretti da Fabio Cavalli, che aveva collaborato fino alla fine con Isabella Quarantotti, moglie di Eduardo, scomparsa tre mesi prima del debutto. Gli occhi dei detenuti brillavano dalla felicità.

 

Un lavoro prezioso, dunque, quello che viene svolto all’interno delle nostre carceri. A Milano, per esempio, Donatella Massimilla lavora con detenuti e detenute del carcere di San Vittore dal 1989. Di recente, hanno portato in scena “Le Visite in Versi”, in cui le attrici del Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) recitano e cantano in diverse lingue del mondo, donando una nuova musicalità alle poesie di Alda Merini. Nel Carcere di Castelfranco Emilia (Modena), invece, è stato allestito di recente “Odissea”, una produzione Teatri dei Venti in coproduzione con Ert / Teatro Nazionale, con la regia di Stefano Tè, in cui attori professionisti e carcerati erano in scena insieme, in un viaggio nel quale gli spettatori stessi erano parte dell’equipaggio.

 

Insomma, se ad entrare nel carcere è il mondo, che si accende grazie al teatro, la rinascita è possibile.

 

E per tornare a “Destinazione non umana” (che sarà in tournée a Campobasso, Narni e poi Milano nel 2023), quello spettacolo racconta proprio questo: il senso di solitudine, la precarietà, la paura della morte e del dolore, che riguarda tutti noi e ancora più chi viene da quel mondo carcerario, dove ciascuna persona sembra essere in attesa di una “macellazione”, proprio come i sette cavalli da corsa geneticamente difettosi al centro della pièce. Ma il teatro, forse, può aiutare a cambiare rotta.

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