La scuola: «Abbiamo lasciato da soli ragazze e ragazzi, isolati in una bolla di silenzio». Il corpo: «È sempre politico». E gli influencer: «Futile, femminile, superficiale, chi viene dal web è per definizione screditato». Intervista alla scrittrice e content creator

Carlotta Vagnoli, al suo terzo libro, è seguita su Instagram da più di trecentomila persone. Dal vivo è una ragazza mora ed elegante, che ride in modo coinvolgente, e parla velocemente guardandosi intorno, legge molto, si accalora, critica. L’accento toscano e marino aggiunge al suo modo di parlare un tono interrogativo. Carlotta Vagnoli fa le domande e ascolta le risposte. Ogni tanto, come in queste pagine, accetta anche di farsi fare le domande. Ho visto giovani esseri umani fermarla per strada e chiederle tutto ciò che si potrebbe chiedere a qualcuno che ha fatto un pezzo di strada in più e ha la generosità di raccontarlo. Carlotta Vagnoli non spiega, racconta. E raccontare è l’unica prassi educativa che ritengo efficace.

Il corpo è ancora politico?
«Per definizione. Pensiamo sia alla presenza dei corpi nello spazio di lotta che all’esclusione o al controllo su alcuni di questi proprio per eliminarli dal gioco politico. La forma del corpo è da sempre stata il primo passaporto per accedere alla pratica politica: corpi maschili, bianchi, abili, cisgender. Nella società della performance patriarcale, i corpi validi sono davvero pochi e sono questi che possono controllare gli altri: mi vengono in mente le politiche riproduttive, la 194, il fine vita, lo ius soli. Ma c’è di più: alcuni corpi sono politici semplicemente esistendo. Pensiamo alle persone con disabilità, alle persone trans, alle persone razzializzate, ad esempio. Solo negli ultimi anni iniziamo ad avere istanze civili che chiedono riconoscimento di diritti e visibilità di alcune categorie marginalizzate. Pensiamo anche ai corpi femminili, ogni giorno esposti alla violenza di genere. Insomma, ogni corpo appartenente a una categoria marginalizzata è politico semplicemente esistendo, perché vive la disuguaglianza sulla propria pelle. E la sua rappresentazione – sia in politica che sui media - diventa fondamentale per ampliare, allargare la politica stessa».

A che serve l’educazione sessuale?
«A tutelare e rendere consapevoli i giovani, mica noi adulti. Solo che i giovani, in Italia, non sono mai stati tutelati. La possibilità di educare le generazioni minori al sesso e all’affettività è sempre esistita, solo che non è mai stata vista da un lato di buon occhio e buon costume – viviamo nella cattolicissima Italia, giocare con la Chiesa in casa e soprattutto inserita così bene nell’istituzione scolastica non aiuta di certo - dall’altro come utile e formativa. Considerata una categoria di serie B, non è mai stato interesse ministeriale inserirla nei POF nazionali, lasciando così il fardello alle singole scuole, che spesso si trovano bloccate da orde di genitori imbufaliti perché “certe cose ai nostri figli non gliele dovete dire”. La possibilità di insegnare educazione sessuale c’è, e avrebbe una bellissima corsia preferenziale ovvero quella ministeriale, se solo non avessimo un sistema educativo fermo al dopoguerra e pieno di contraddizioni».

La generazione Z sente il bisogno di educazione sessuale?
«È incredibilmente curiosa e ha a disposizione una enorme quantità di controinformazione – che arriva anche e soprattutto dal web: le fortune dei nativi digitali sono immense in questo senso - e questo le permette di essere anni luce avanti rispetto alla mia generazione – millennial - o quella ancora precedente - X - in termini di formazione indipendente. Il problema rimane però il solito: responsabilizzare il singolo individuo per la propria informazione è quanto più lontano dal significato di “cultura” che ci sia».

Pensa ancora alla scuola.
«Penso a politiche ministeriali mirate e sveglie, che eliminino le disuguaglianze e creino spazi di confronto, ad oggi totalmente assenti nelle nostre scuole. Abbiamo lasciato da soli anche questa generazione di giovani, e sta a noi, alla nuova generazione di adulti, cercare di non commettere l’errore che da troppo tempo va avanti e che isola ragazze e ragazzi in una bolla di silenzio e mancato ascolto».

E il revenge porn?
«Non solo, anche la brutalità del linguaggio digitale, l’aumento di casi di condivisione non consensuale di materiale intimo tra i giovanissimi, l’aumento della violenza e del bullismo, direi che sì, c’è tanto bisogno di educazione sessuale. Soprattutto per creare cultura laddove cultura sembra non esserci, ovvero in tutti quegli spazi digitali che ancora sono terra di nessuno e non hanno regole precise e tantomeno tutele da parte delle compagnie private che gestiscono le piattaforme».

Che significa giovane?
«La parola “giovane”, nella nostra società deliziosamente paternalista, è quell’arma a doppio taglio che da un lato ti ricorda che hai tempo e sei ancora meravigliosa, dall’altro ti esclude dai giochi».

Quindi lei è una giovane scrittrice di 35 anni?
«Sì. E credo sia finita da un pezzo l’età della gioventù, ma questo permette di non prendere il mio lavoro troppo sul serio, le mie istanze in maniera rigorosa, la mia voce con la dovuta attenzione. Se sei giovane, sei automaticamente inesperta, fumantina, sopra le righe: prima o poi ti passerà. Giovane però vuol dire che dimostri meno anni di quelli che in realtà hai e questo è ancora lo scopo primario di una società dell’apparenza come la nostra: invecchiare? Giammai. Fingere sempre. Arrendersi mai. Ed ecco qui spiegato l’ultimo governo Berlusconi. Credo che giovane sia chi ha bisogno della nostra attenzione. Una persona giovane ha bisogno di ascolto e fame di apprendimento, di spazio e respiro. Per questo il lavoro di noi adulti dovrebbe essere in funzione dei giovani, non viceversa: per dare spazio e accogliere, formando, nuove voci».

Ha mai pensato di entrare in politica?
«Mi voglio troppo bene per la politica, non ci entrerei mai. Trovo ci siano meccanismi di poltrona terrificanti, a cui non vorrei mai sottostare. Mi rende triste la scena del nostro Paese, mi mortifica profondamente e credo che il mestiere di chi si definisce intellettuale sia proprio quello di rimanere distaccato dalla politica, per poter vedere con lucidità e disinteresse quel di cui abbiamo bisogno, senza sfruttare le tematiche culturali e sociali a proprio favore: chi lo fa, appunto, è un politico che ha interesse per sé e per il proprio partito, e non un intellettuale, il cui interesse è invece rivolto verso la collettività e il suo pensiero».

Qualcuno le ha chiesto di entrare in politica?
«Sì, e io ho riso di gusto, facendo un sobrissimo gesto dell’ombrello».

Influencer è usato in accezione dispregiativa, perché?
«Influencer nasce come un mestiere prettamente femminile. E già questo ci potrebbe far capire perché venga preso così poco seriamente. Nello spazio digitale, le donne e le giovani donne della prima decade dei 2000 si sono ritagliate uno spazio lavorativo che potesse conciliare la vita familiare, quella domestica e sociale. I settori in cui si trovano più influencer sono quelli reputati femminili dalla nostra società patriarcale: beauty, moda, fitness, cucina. Insomma, secondo stereotipo, sono i settori ritenuti futili. La figura dell’influencer, dai blog del 2010, si è evoluta ed è diventata quella che oggi conosciamo tutti: una persona molto nota sulle piattaforme social che ha il potere di influenzare gli spettatori in determinati settori e su determinati argomenti. È un lavoro, ben poco codificato e spesso - molto spesso - pieno di speculazione e woke washing delle aziende - ma è anche un ambiente in piena espansione. Il termine influencer ha preso accezione negativa perché appunto abbinato a qualcosa di futile, femminile, superficiale. Quindi, per proprietà transitiva, tutte le donne con un po’ di seguito, anche se di professione non sono influencer, quando dovranno essere screditate verranno chiamate influencer».

Siamo un paese vecchio e maschilista?
«Di certo, screditare chi arriva dal web avviene anche perché le vecchie generazioni non comprendono il potenziale del digitale e reputano ancora tutto ciò che è collegato ai social e a Internet una grande cazzata da ragazzini. Che brutta malattia la competizione generazionale».

Si sente un simbolo?
«Non mi sento un simbolo, mi sento una normalissima millennial. La mia storia è quella di gran parte dei miei coetanei: anni di lavori in nero, co. co. co, voucher Inps, stage pagati come delle goleador, affitti alle stelle, partite Iva come se piovessero, questione di genere e divario salariale. Non mi sento un simbolo perché appunto io sono la norma di una generazione. Io parlo, ma non più di altri: ci sono miei coetanei che lo fanno con altrettanta costanza e bravura. Io so però come fare infuriare le persone. E questa, che altro non è che una forma di manipolazione, è una dote a cui tengo molto».

Abbiamo fatto un libro insieme, “Memoria delle mie puttane allegre” (Marsilio, 2022). Le sue puttane sono femministe?
«Involontariamente femministe. Sono infatti donne che non conoscono e non conoscevano la teoria femminista, spesso non conoscevano neanche il mondo esterno – vedi mia nonna Iselda -, ma a livello inconscio, quasi primordiale e istintivo, si manifestavano nella loro pienezza caratteriale, in una complessità meravigliosa e priva di stereotipi, libera, che è quanto di più femminista ci sia. Le mie donne di Macondo arrivano al femminismo senza saperlo, senza neanche sapere cosa sia: ci arrivano in maniera del tutto naturale. E questo mi spinge a pensare ancor di più che il femminismo sia davvero l’unica salvezza possibile per la nostra società».

Il femminismo non le ricorda un po’ la sinistra? Molte discussioni interne, intendo
«Partiamo da un assunto: il femminismo è necessariamente di sinistra. Dunque, per proprietà transitiva – mi corregga se sbaglio, la matematica è cosa sua e ahimé non mia - il femminismo soffre spesso di quelle patologie tipiche della Sinistra, ovvero la iper frammentazione. Alcuni di questi femminismi sono poi arretrati, assolutamente anacronistici e lontani decenni dai concetti a noi contemporanei (mi vengono in mente le “terf“ e le “swerf”). Di base però, ogni femminismo parte da una radice comune e mira - tranne i due esempi di cui sopra - all’intersezionalità. La Sinistra l’abbiamo persa tra le barche in Costa Smeralda, i giochetti di Renzi, il classismo sfrenato e i finanziamenti alla guardia costiera libica. Credo che la cosa più di sinistra sulla sinistra italiana l’abbia detta Nanni Moretti in “Aprile”, quando intima a D’Alema di dire qualcosa di sinistra. Sono passati quasi 25 anni da quel film e direi che la situazione è sempre quella: sinistra, dì qualcosa di sinistra, ascolta il femminismo».