Si fa presto a dire sovranismo. Parola che applicata al campo largo dell’economia si traduce nel vagamente intimidatorio «padroni a casa nostra». Concetto semplice, elementare: vuol dire che tutte le aziende strategiche per il sistema Paese devono restare in mani italiane. Grandi banche, reti di telecomunicazioni, energia, acciaio e via elencando in un crescendo di nazionalismo, tra parole d’ordine patriottiche e fantasiose evocazioni di complotti stranieri ai danni di Roma. E allora: «Giù le mani dalle imprese tricolori».
Giorgia Meloni e Matteo Salvini lo vanno predicando da sempre, anche se il secondo di recente ha un po’ abbassato i toni. Un ripiegamento tattico, con la Lega del «prima gli italiani» ridotta a fare da stampella al governo di Mario Draghi, già nemico numero uno di tutti i populisti di ogni ordine e grado. Ma ora che l’ex banchiere ha gettato la spugna, i toni leghisti sono tornati quelli di sempre, anche perché c’è da arginare in qualche modo l’ascesa di Fratelli d’Italia, partito cresciuto a suon di opposizione dura e pura alla politica economica draghiana.
In questa gara di decibel e slogan tutta interna al centrodestra, quasi non si sente la voce dei berlusconiani, persi tra surreali proposte di dentiere gratis e pensioni per tutti a mille euro al mese. Sarà per questo che nel programma della coalizione presentato ai primi d’agosto la questione del futuro delle grandi imprese di sistema è stata liquidata in una sola riga: «Difesa delle infrastrutture strategiche nazionali». Cinque parole in tutto per uno slogan che lascia il tempo che trova. Il problema, semmai, sarà passare dalle parole ai fatti. E qui i tre partiti alleati navigano tra contraddizioni e promesse impossibili da mantenere.
Prendete Alitalia, ora Ita Airways, giunta all’ennesimo giro di boa di una storia trentennale, di sprechi, bilanci in rosso e fallimentari tentativi di salvataggio. «Spero che il presidente Draghi smentisca l’ipotesi di un’accelerazione del processo di vendita di Ita a Lufthansa», ha scandito Meloni il 2 agosto mischiando un po’ le carte, visto che il gruppo tedesco è solo il partner di minoranza (20 per cento) di una cordata di aspiranti acquirenti di Ita che vede come azionista principale al 60 per cento l’armatore italiano con base in Svizzera Gianluigi Aponte, mentre un altro 20 per cento resterebbe di proprietà dello Stato italiano. Va poi ricordato che oltre ad Aponte-Lufthansa in gara c’è anche l’offerta concorrente presentata dal fondo statunitense Certares insieme ad Air France. Lo spauracchio tedesco però fa comodo per evocare la svendita allo straniero cattivo pronto a mangiarsi in un sol boccone un pezzo d’Italia. E a ben guardare non c’è neppure l’accelerazione citata dalla leader della destra. Anzi, la vendita è già in ritardo di due mesi sulla tabella di marcia fissata a febbraio dal governo.
Com’era prevedibile, Draghi ha confermato che intende completare la privatizzazione entro settembre, prima delle elezioni. In caso contrario, e nell’ipotesi (al momento molto accreditata) che dalle urne esca vincente la coalizione di centro destra, si tornerebbe tutti alla casella di partenza, con il ministero dell’Economia azionista unico di una compagnia aerea che pare destinata a chiudere i conti in rosso ancora per anni. Lo stop alla privatizzazione aprirebbe con ogni probabilità un contenzioso con la Commissione di Bruxelles, quantomeno sugli aiuti di Stato indispensabili per evitare il crac della neonata Ita. In prospettiva, quindi, sarebbe il bilancio pubblico a finanziare l’ennesimo salvataggio. Un argomento, quello dei costi a carico della collettività, difficile da spendere in vista del voto. E così Meloni, comprensibilmente, preferisce parlar d’altro sventolando la bandiera del sovranismo economico.
Salvini e Berlusconi invece tacciono. D’altronde, quando qualche mese fa il governo diede via libera alla privatizzazione, fissandone anche i tempi, Lega e Forza Italia, entrambe parti dell’esecutivo, non fecero una piega. E allora, adesso, è meglio ripiegare su un dignitoso silenzio, anche a costo di lasciare campo libero a un’alleata che non perde occasione per recitare la parte di leader della coalizione. Non per niente, solo pochi giorni fa, Fratelli d’Italia si è intestata un’altra battaglia decisiva per il futuro del sistema Paese. La questione in verità non è nuova e ruota intorno al quesito seguente: chi avrà il controllo della rete di cavi in fibra ottica che trasporta voci, dati e immagini in ogni angolo della Penisola? «La proprietà dev’essere pubblica», va ripetendo Meloni da anni. «Serve un’infrastruttura unica, a cui tutte le aziende telefoniche possano accedere per vendere i loro servizi al pubblico». Questa in breve la posizione di Fratelli d’Italia. Facile a dirsi.
Il problema è che al momento le reti su scala nazionale sono due: quella di Tim, l’ex monopolista, a cui va aggiunto il network di Open Fiber, l’azienda nata nel 2015 su impulso del governo di Matteo Renzi e ora controllata dalla Cassa depositi e prestiti (al 60 per cento) e dal fondo australiano Macquarie per il restante 40 per cento. Nei piani di Draghi, l’accordo tra i due gruppi avrebbe dovuto portare ad una rete unica con l’azionista pubblico in maggioranza (Cdp) insieme a due partner finanziari privati, cioè Macquarie e gli americani di Kkr.
Il piano messo a punto sulla carta si è però fin da subito dimostrato molto difficile da realizzare. Il socio principale di Tim è il gruppo francese Vivendi di Vincent Bolloré con una quota del 23 per cento, seguito dalla stessa Cdp con il 10 per cento circa. Ebbene, da Parigi hanno messo in chiaro che la rete di Tim vale almeno 31 miliardi. Questa sarebbe l’offerta minima per dare via libera alla cessione. Una simile richiesta mette in grave difficoltà Cdp, che in base agli accordi tra le parti entro agosto dovrebbe formulare una prima proposta d’acquisto insieme a Macquarie e Kkr. Se poi si considera che non è nemmeno chiaro il perimetro delle attività che dovrebbe essere ceduto, è facile concludere che l’operazione rischia di rimanere ferma ai blocchi ancora a lungo. Non è neppure pensabile che la Cassa depositi e prestiti, che custodisce il risparmio postale degli italiani, possa indebitarsi a rotta di collo per soddisfare le richieste dei francesi.
Al momento manca un piano B. Meloni però insiste. Ecco perché a metà agosto hanno preso a circolare in Borsa le indiscrezioni su una possibile offerta pubblica d’acquisto (Opa) su Tim lanciata da Cdp con l’obiettivo di rilevare il 90 per cento dell’azienda telefonica che ancora non controlla, per poi cedere al migliore offerente le attività diverse dalla rete. Un’operazione simile, che ai valori di Borsa attuali costerebbe oltre 4 miliardi, non può certamente partire mentre a Roma c’è un governo dimissionario. Solo dopo il 25 settembre, se davvero il centrodestra uscirà vincente dalle urne, si capirà se i progetti attribuiti a Fratelli d’Italia hanno una qualche consistenza.
Nel frattempo, Meloni si limita a ribadire che la rete deve tornare pubblica, «come in tutte le grandi democrazie occidentali», ha dichiarato nei giorni scorsi. Sullo stesso tema, invece, non è chiaro cosa pensino gli altri due leader del centrodestra. Nel caso di Berlusconi, è comprensibile l’imbarazzo ad affrontare il caso, visti i rapporti pregressi con Vivendi, importante azionista di Mediaset con cui Fininvest ha chiuso solo l’anno scorso una lunga battaglia legale. I francesi però restano azionisti del gruppo televisivo con una quota di oltre il 20 per cento che in base alle intese raggiunte verrà messo gradualmente sul mercato nei prossimi anni.
Non è una sorpresa, allora, che il capo di Forza Italia preferisca tenere un profilo basso per non irritare il suo socio transalpino. D’altra parte, quando la matassa si fa troppo complicata da sbrogliare, perfino il sovranismo declamatorio alla Meloni qualche volta cede il passo a valutazioni più articolate. Capita perfino che la patriota tutta d’un pezzo arrivi a chiedere l’intervento di Bruxelles. Com’è successo un paio di anni fa sulla vicenda dell’Ilva di Taranto quando la leader di Fratelli d’Italia esortò il governo ad appellarsi all’Unione europea per fare in modo che la Germania continuasse a comprare acciaio italiano per le proprie aziende automobilistiche. All’epoca qualcuno le fece notare che Berlino può fare tranquillamente a meno delle nostre forniture, visto che la siderurgia tedesca è la più forte del continente. Da allora la situazione non ha fatto che peggiorare.
Lo Stato ha affiancato Arcelor nell’azionariato dell’ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia, che però viaggia ancora al minimo, con gravi problemi di liquidità. Nei giorni scorsi è arrivato il pronto soccorso del governo che ha garantito, non si sa con quali tempi, mezzi freschi per un miliardo. Il futuro di Taranto, però, resta ancora in bilico. Questione ambientale, rapporti con l’azionista straniero, nuovi investimenti. Prendere una posizione chiara su questi argomenti potrebbe costare migliaia di voti anche al centrodestra, che nei mesi scorsi si è limitato ad attaccare l’immobilismo del governo senza proporre soluzioni alternative. All’occorrenza, invece, può anche tornare utile la soluzione di sempre: prendersela con l’Europa come causa di tutti i mali.
All’inizio di agosto, per dire, la Commissione di Bruxelles ha concesso più tempo all’Italia per dismettere la sua quota nel Montepaschi, in cambio di nuovi impegni precisi sulla ristrutturazione dell’istituto. Il piano di Bruxelles è «un'ulteriore mazzata» a base di «licenziamenti e chiusure», è subito partito all’attacco Salvini. Parole che certo non hanno tranquillizzato gli investitori internazionali. Gli stessi che il prossimo autunno, quando forse la Lega sarà al governo, dovranno in parte finanziare l’aumento di capitale per 2,4 miliardi di cui Mps ha assolutamente bisogno. Niente paura, se l’operazione non andrà in porto, Lega e Fratelli d’Italia potranno comunque dare la colpa alle trame della finanza internazionale. E all’Europa cattiva. Ovviamente.