Le storie
Marcello, Giovanni, Alessio e quella seconda chance che cambia la vita di un detenuto
Dopo anni in cella e storie difficili hanno un lavoro all’esterno per merito degli incentivi previsti dalla legge Smuraglia. E ora, forse per la prima volta, vedono anche un futuro
«Calati junco chi passa la china», così Marcello riassume la sua storia, perché in questo proverbio siciliano c’è il senso della sua vita: «Piegati giunco che la piena del fiume passa». Adattati, non opporre resistenza, che poi ti rialzerai più forte di prima.
Marcello è uno dei detenuti che grazie al progetto “Seconda Chance” sta avendo la sua seconda occasione, la possibilità di riscatto da una vita «segnata». Tutto nasce nel gennaio del 2021 dalla forza di volontà di una giornalista di cronaca giudiziaria del TgLa7, Flavia Filippi, che a furia di sentire racconti di vite sprecate per mancanza di altre opportunità, decide di rimboccarsi le maniche, rivitalizzando una legge che vivacchiava nei cassetti della burocrazia. La legge Smuraglia del 2000 - voluta fortemente dal partigiano Carlo Smuraglia, da poco scomparso - prevede sgravi fiscali e contributivi per le aziende che assumono detenuti, ma al di fuori delle carceri ha trovato applicazioni circoscritte. A Roma e a Velletri, con la collaborazione della Garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, e con l’allora provveditore alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone, “Seconda Chance” è diventata realtà: oggi è un’associazione del terzo settore, ha un suo sito e ha trovato lavoro a un’ottantina di detenuti, facendo da cerniera tra le aziende e il carcere. E si sta espandendo. Grandi marchi come Nespresso e Tsg Group stanno assumendo personale dagli istituti di Monza, Opera e Bollate e varie offerte stanno arrivando da altre Regioni.
Marcello
I colori rievocano la Palermo dei Normanni. E di siciliano ha tutto, anche lo sguardo schivo di chi ti scruta e ci mette un po’ a fidarsi. Quarantasette anni, 21 dei quali vissuti in carcere tra Italia e Francia, accusato di narcotraffico da alcuni collaboratori di giustizia, Marcello passa la sua prima detenzione nella sezione di massima sicurezza. «Otto anni, ma io ero innocente e questo lo deve scrivere», ripete. Prima del carcere aveva tre edicole e gestiva un ristorante nel centro di Palermo. Nel 2001 viene arrestato e da quel momento la sua vita cambia completamente. Dal 2015 vive dietro le sbarre di Rebibbia e dall’aprile scorso è aiuto cuoco nel Bistrot Le Serre by ViVi, a Roma Nord. La sua grande occasione per prepararsi a tornare alla vita, un’occasione in cui non credeva più dopo anni passati nella sfiducia più totale verso il sistema «di uno Stato che mi ha abbandonato», dice.
Per capire sino in fondo Marcello, bisogna partire dalla sua mentalità da “uomo d’onore”, nel senso più letterale del termine. «Nella giustizia italiana a differenza della Francia, se tu detenuto non vuoi essere visto, non ti vedono. Se tu non vuoi metterti nei guai, non ti ci metti. E se non chiedi aiuto, nessuno te ne dà. Nessuno si interessa a te. Non esisti», spiega. E Marcello non ha mai chiesto niente, «per dignità», precisa. «Non ho mai voluto lavorare, per esempio, per un carcere che non mi ha insegnato nulla. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto da solo». All’inizio la sua salvezza sono stati i libri, il corso di laurea in Lettere e filosofia all’Università di Tor Vergata, e la musica. Ma senza speranza per il futuro: «Vedevo buio, qui si fanno tanti sogni sul “dopo”, ma prima o poi ci si scontra con la realtà». Una realtà che per lui, però, prende una strada inaspettata. Come se avesse deciso di fare pace con il passato, di piegarsi alla piena del fiume per poi rialzarsi più forte. «Ad un certo punto mi sono detto: ma perché io non devo prendere soldi dallo Stato, quando lo Stato si è preso la mia vita? E ho iniziato a lavorare in carcere, prima come lavapiatti, poi come cuoco».
E lì che forse Marcello si sente «visto» e accetta di aderire al progetto “Seconda Chance”. Ad aprile esce da Rebibbia e si trova catapultato in una città che non conosce, in un’epoca che non ha mai vissuto: quella dell’euro e dei cellulari che fanno le foto e i video. «Ho pensato di essere pazzo, vedevo la gente parlare da sola e non sapevo dove andare. Mi sono sentito perso, un alieno in preda alla follia». Ma la brigata della cucina delle Serre by ViVi lo ha accolto a braccia aperte, «sono arrivato con dei fogli tenuti da un elastico, mi hanno regalato uno zaino e l’abbonamento della metro». Le proprietarie, Cristina e Daniela, il primo giorno di lavoro hanno fatto il tragitto dell’andata con lui. «Quando esco la mattina prendo a morsi la vita, ma quando torno mi sento morire, perché entrare, sulle mie gambe, in quell’inferno è come consegnarmi ogni sera». Una volta, dice, non lo avrebbe mai fatto, ma ora lo ha accettato, «mi sono rassegnato, il passato è andato e la vita non si spreca. Anche perché io ho un “fine pena”, e non è nemmeno così lontano. Calati junco chi passa la china. La mia sta passando».
Alessio
Chi, invece, è senza dubbio grato al carcere è Alessio: romano, 24 anni appena compiuti, il più piccolo del suo reparto. Riservato, silenzioso, chiuso in un mondo tutto suo, non si fida di nessuno e si fatica anche a sentirlo parlare. «Se oggi sono qui lo devo alle educatrici, alle psicologhe, ai detenuti e alle guardie. E alla mia forza di volontà». Racconta: «Quando sono arrivato, stavo talmente “fuori” che non capivo nulla». Non sentiva nemmeno il peso della condanna: 21 anni (poi scesi a 4 anni e 10 mesi), lui che di anni ne aveva solo 20. Ma Alessio voleva essere «beccato», lo confida, dietro quello sguardo criptico, impossibile da decifrare ma anche da dimenticare. La sua disperazione era estrema ed estrema è diventata la sua richiesta di aiuto.
È arrivato a Rebibbia una notte del 2019, colto sul fatto e accusato di aggressione a mano armata, tentato omicidio e violenza. Dopo un anno in sezione di media sicurezza è finito in regime punitivo per tornarci dopo quattro mesi, in piena emergenza Covid-19. «Il carcere può piegarti, stai lì, in quelle quattro mura, con un paio d’ore d’aria e una convivenza forzata», dice. Eppure ai suoi occhi quella era la sua unica salvezza. «Quando mio padre è andato via di casa avevo sette anni, dopo tre ho smesso di parlargli. Ho sentito il dovere di indossare i panni dell’uomo di casa, ma ero troppo protettivo nei confronti di mia madre e delle mie sorelle». Un peso eccessivamente grande per un bambino. «A un certo punto non c’ho avuto più il cervello pe’ regge’, me so’ sentito un fallito e ho sbroccato», dice tutto d’un fiato.
Eppure Alessio non si sbilancia mai, pesa bene le parole. Più volte sottolinea il valore che per lui ha avuto la psicologa, così come un suo compagno di cella, che ora non c’è più. «È morto poco dopo essere uscito», racconta. Anche per lui ha accettato di entrare in art.21, ovvero tra i detenuti lavoranti. E poi di aderire al programma “Seconda Chance”. Da meno di un mese fa il cameriere presso Eggs, ristorante nel cuore di Trastevere, «io tutto sto’ lusso non l’avevo mai visto», sorride. Uno di quei pochi sorrisi furtivi che concede. Ha riallacciato i rapporti con suo padre e la sua famiglia è venuta a vederlo lavorare in quella che per lui rimane la “Roma dei ricchi”. «Ho realizzato che mio padre ha cinquant’anni e non deve pagare per stupidaggini che non ha commesso. Lui è innocente, il colpevole sono io. E sto pagando», sussurra salutando. Alessio oggi ha ripreso a disegnare, sogna un futuro da tatuatore. È l’unico modo che conosce per parlare di sé.
Giovanni
“Giannetto er matto”, così lo chiamavano per come guidava durante le rapine. Giovanni, 47 anni, “romano de Roma”, una vita consumata tra una cinquantina di istituti penitenziari, 11 dei quali in Romania. A vederlo così sembra, se così si può dire, lo stereotipo del carcerato: 110 chili di muscoli e tatuaggi. Ma, come capita a ogni persona, anche lui si scioglie nelle emozioni. E lo fa mentre si racconta, ansioso di poter dire che lui vuole rifarsi una vita. Che la vergogna per come ha vissuto è forse la spinta che l’ha fatto cambiare. Insieme alla voglia di non deludere le due donne che gli hanno offerto un’altra possibilità, l’ispettrice di reparto. E soprattutto sua figlia. Giovanni è dietro le sbarre dal 1998 per diverse accuse di tentato omicidio, rapina a mano armata ed estorsione.
Da poche settimane lavora come manovale da Botw, un’agenzia che organizza grandi eventi, con sede a Pomezia. «Nella mia vita ho fatto tanti impicci. Vivevo coi miliardi, co’ le macchine di lusso. Mi credevo Dio e davo importanza alle cose che non contano niente. Ho buttato 24 anni della vita mia». Parla di un’infanzia in collegio, di una vita difficile tra droga e alcool, di un padre padrone a cui non dà colpe. Racconta del passato con amarezza mista a orgoglio. Il perché lo si capisce quando apre il capitolo Romania: «In quei posti la gente è povera e pe’ fa’ du’ spicci è disposta a tutto, anche a prostituirsi. Quello che gira nelle carceri sono per lo più anabolizzanti e cellulari, per cui so’ tutti lottatori… capitava allora che le guardie la sera passassero per le celle e dicessero: “tu, tu e tu domani a intervallo”. E se tu eri tra quelli, sapevi già che il giorno dopo eri su un ring a lotta’ per la vita tua che per loro valeva i du’ spicci che avevano scommesso».
Giovanni ci tiene a precisare che sta raccontando solo le cose «che non fanno vomitare»: «Di notte ti rifilavano 20-30 pasticche per dormire e la mattina ti svegliavi nudo, a pancia sotto». Poi, di colpo, lo sguardo fiero: «Però quando Giannetto er matto è uscito dal carcere, gli hanno battuto le mani e gli hanno urlato: “Ecco il mafioso se ne va”. Perché io ho resistito pure in Romania. E ho resistito da leone, non da pecora». Cade il silenzio per qualche secondo. Si torna al presente con un po’ di imbarazzo. “Giannetto er matto” se ne è andato. Ora tocca a Giovanni che non vuole deludere nessuno, che sogna una sua impresa edile, una macchina normale e un rapporto con una figlia che solo da qualche mese lo chiama papà. Sorride timidamente: «Solo che io er papà nun so come se fa’».