"Nessuna avaria, esplosione a bordo o meteo avverso: la commissione parlamentare di inchiesta individua un nave non identificata presente sulla scena della collisione con la petroliera Agip Abruzzo che provocò la morte di 140 persone"

L’ultimo segreto del Moby Prince è l’identità e la fretta di un’imbarcazione misteriosa: poco prima delle 22.25 sfila davanti al traghetto, poi scompare nel buio della rada di Livorno. Viene evitata virando di oltre 15 gradi a sinistra. Ma la petroliera Agip Abruzzo è lì, ad appena 500 metri, in zona di divieto ancoraggio, invisibile, avvolta dal vapore per un blackout.

A bordo del traghetto sul quale morirono 140 persone la notte del 10 aprile 1991 non c’era nessuna bomba e nessun esplosivo solido è stata la causa, né prima né dopo, dello scoppio avvenuto nei locali di prua, dovuti alla miscela di gas e fiamme scaturiti dall’impatto con uno dei serbatoti della petroliera. Nessuna avaria al timone o ai sistemi di navigazione o inadeguatezza meccanica deviano la rotta verso Olbia. Ma né la simulazione video dello scenario più probabile tra le ipotesi calcolate sulla base di tutti i dati disponibili realizzata da CETENA, società di ingegneristica navale di Fincantieri, né l’ascolto e la digitalizzazione per la prima volta di tutte le 11 piste del “bobinone”, l’IPL Livorno Radio, il nastro che oltre al noto “Canale 16” contiene le registrazioni di tutte le comunicazioni nella rada di Livorno la notte del disastro, bastano a provare l’identità dell’”ostacolo” che ha causato il più grande disastro della marineria italiana.

Lo sostiene la Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause della tragedia del Moby Prince della Camera, presieduta dal deputato Pd Andrea Romano e la cui relazione conclusiva è stata presentata oggi a Palazzo San Macuto, dopo poco più di un anno di lavoro, interrotto dalla fine del governo Draghi.

 

Al vaglio c’erano le ipotesi investigative lasciate aperte dalla Commissione di inchiesta del Senato 2015/2018, tutta centrata sulla decostruzione delle verità giudiziarie di tre processi e di un’inchiesta archiviata: nessuna nebbia improvvisa a compromettere la visibilità in rada, nessuna negligenza da parte del comando del traghetto, i soccorsi mal coordinati dalla Capitaneria di Porto giustificati da un alibi, smentito: la morte di tutto l’equipaggio e dei passeggeri in appena mezz’ora.

Sotto la lente dei 18 consulenti chiamati ad esaminare anche materiali inediti dalla nuova commissione, operativa dal 13 luglio 2021, c’erano quattro questioni chiave: il vero posizionamento della petroliera, la tempistica e la natura dell’esplosione avvenuta nei locali di prua del traghetto, gli strani accordi assicurativi di Navarma (oggi Moby Line) della famiglia Onorato con Snan/Agip/Eni, appena due mesi dopo l’incidente. E soprattutto le vere cause del cambio di rotta improvviso del Moby: “Pur avendo individuato alcuni interessanti spunti di indagine, la Commissione non è in grado di indicare con certezza quale sia l’identità di questo terzo natante”- si legge nella relazione finale. Motivo principale, la fine del tempo tecnico per indagare ancora. Sulla “21 Oktobar II” ad esempio, peschereccio di altura e nave ammiraglia della Shifco, la flotta italo-somala al centro delle indagini di Ilaria Alpi e Milan Rovatin sui traffici di armi e rifiuti su cui l’inchiesta archiviata dalla Procura di Livorno nel 2010 si sofferma con 20 pagine. Ufficialmente nel porto toscano per riparare danni avvenuti a seguito di una collisone il 23 gennaio 1991 nella rada del Porto di Stone Town a Zanzibar, la sera dell’incidente di sposta: lo riferisce una testimone, ne vede le vele dalla finestra la sera ma non la mattina. Fu dichiarata inattendibile perché al processo “si confuse” e raccontò il contrario.

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L’Espresso ad aprile aveva raccolto la testimonianza inedita di un ex comandante della Guardia di Finanza di Trieste a cui un collaboratore dei servizi segreti aveva riferito dell’incidente al Moby: «Era un affare andato male, un’operazione che non è andata in porto ed è stata un disastro. Era una operazione a cui stavano lavorando i servizi», aveva detto, indicando la Shifco come “una società dei servizi segreti”. Una voce che sarebbe stata verificata anche dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze, già a lavoro su un fascicolo per “strage”, parallelo a quello della procura di Livorno e i cui titolari sono il sostituto Sabrina Carmazzi e il procuratore capo Ettore Squillace Greco. Entrambe hanno lavorato anche ad una loro perizia esplosivistica.

 

Quella della Commissione intanto ha concluso che l’esplosione a bordo è avvenuta successivamente alla collisione e al conseguente incendio. L’ingegnere Gianni Bresciani e il Tenente Colonnello dei Carabinieri Adolfo Gregori nei laboratori del Racis di Roma hanno analizzato 40 campioni tra cui reperti mai analizzati recuperati dagli archivi del Tribunale di Livorno e nuovi tamponi effettuati anche sulle scatole e sulle buste stesse dei reperti. Su questi ultimi è stata rilevata la presenza di esplosivi come Pentrite (PETN) e HMX: “Tale risultato – si legge nella relazione di Gregori– consente di confermare i dubbi sulle possibili contaminazioni, ovvero che i plichi contenenti i reperti siano stati custoditi in luoghi contaminati da esplosivi, oppure siano stati manipolati da personale contaminato”.

Anche le tracce su alcuni reperti di Tritolo (TNT) in bassa quantità, confermano l’ipotesi contaminazione: dato “poco compatibile con i quantitativi rilevati generalmente a seguito di una esplosione, e di Pentrite su altri reperti”. Alessandro Massari, sento di nuovo dalla Commissione, nel ’92 consulente della Criminalpol per la Procura, sostenne invece che l’esplosione nei locali delle eliche di prua fosse dovuta ad esplosivo solido, individuando tre sostanze usate in esplosivi ad uso civile e due di tipo militare. Conclusione in contrasto già allora con quella della Mariperman, l’istituto della Marina Militare che parlava di semplice esplosione post collisione da gas.

 

Nulla è emerso dai documenti del Rina, il Registro Navale Italiano, contattato sia per verificare lo stato del Moby, che quello della nave Shifco. Il Moby non aveva avarie. Lo spiega nel dettaglio la perizia del comandante della Marina Militare Sergio Simone, che ha esaminato le ultime parti ancora esistenti del Moby, rottamato in Turchia nel 1998: gli avviatori e il commutatore del timone “manuale/automatico” non presentano malfunzionamenti. Quest’ultimo tentò di manometterlo il nostromo Ciro di Lauro: si autoaccusò di essere salito sul relitto con un tecnico della Navarma per cambiarne lo stato. Furono assolti per “difetto di punibilità”. Cade l’ipotesi truffa assicurativa, ma rimangono forti ombre sull’accordo, seppur regolare, stipulato due mesi dopo l’incidente tra Navarma, l’Unione Mediterranea di Sicurtà e The Standard Steamship Owners Protection and Indemnity Association Limited (Bermuda) da una parte, ed ENI Spa,SNAM, AGIP, la Padana Assicurazioni Spa e l’Assurance Foreningen Skuld, dall’altra. È da intendersi “come uno specifico accordo sulla collisione e sulle relative responsabilità privatistiche sottostanti all’evento che non come un semplice accordo assicurativo”- si legge. “Un patto di non belligeranza, lo definisce Romano, ipotizzando che “ha contribuito ad orientare la ricostruzione dei fatti e abbia avuto una marcata influenza sullo sviluppo delle indagini prima e della fase processuale dopo”- spiega la Commissione. Navarma riscosse all’epoca anche 20 miliardi, il valore dell’intera polizza sul Moby (che ne valeva 7), comprensiva di “rischio guerra”.

Eni (che ha scorporato Snam nel 2012) non ha fornito dati utili su inchieste interne, carico, provenienza della nave e attività di quella notte, un atteggiamento che anche la nuova Commissione ha definito “opaco”. La certezza della posizione della petroliera, in divieto di ancoraggio, l’ha individuata invece il geologo Alfred Komin sulla base delle immagini satellitari dei dall’8 al 10 aprile 1991, raccolte dal Servizio Geologico statunitense e declassificate nel 2018. I dati di radar e satelliti sono stati chiesti anche al governo Usa, a quello russo e francese, ma nessuno ha ammesso di avere dati provenienti da “occhi” puntati in quel tratto di mare quella notte.

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La fine della legislatura non ha permesso di veder sfilare in Commissione l’unico sopravvissuto, Alessio Bertrand e lo stesso armatore Vincenzo Onorato. Luchino Chessa, uno dei figli del comandante Ugo Chessa, insieme al fratello Angelo, scomparso pochi mesi fa, alla guida dell’associazione dei familiri “10 aprile” ha chiesto che prosegua il lavoro per identificare la “terza nave”: «Ora dobbiamo anche capire perché nessuno ha soccorso il traghetto e perché tutti sono andati verso la petroliera che aveva una serie di situazioni dubbie che oggi devono essere chiarite e che hanno portato a quel patto di non belligeranza tra le due compagnie-ha detto. Perché Navarma ha voluto questo accordo assicurativo? Che cosa ci ha guadagnato?»