La campagna elettorale in corso ha tra i grandi assenti i temi della giustizia, della legalità e dell’antimafia. Alcune righe superficiali nei programmi di alcuni partiti, nessun riferimento nei comizi, in tv, sui social. Il tema è fuori dall’agenda, politica e mediatica, ormai da tempo. D’altronde, agli elettori è chiesto esclusivamente di barrare un simbolo, non di scegliere un nome, una storia, una battaglia. L’attuale legge elettorale - lo sciagurato Rosatellum che tutti criticano e nessuno ha modificato - impone un voto secco, e lascia i cittadini disarmati di fronte alla scheda: votare per esprimere un’appartenenza o per chi ha più chance di vincere, per dare una testimonianza ideologica o per impedire “agli altri” di ottenere un potere quasi assoluto? In questo scenario le mafie stanno già facendo ciò che è stato il loro tratto distintivo nei decenni: intrecciare rapporti con quello che considerano il cavallo vincente. La mafia non ha ideologia e, come risulta da tante indagini, non ha disdegnato di avere legami con politici di qualsiasi colore.
Eppure in un recente sondaggio, dati di luglio 2022, il 64 per cento della popolazione ritiene che lo Stato non si stia impegnando al massimo contro le organizzazioni criminali; colpisce poi che ben il 51 per cento ritiene che le mafie siano un problema concreto ma che potrà essere sconfitto, mentre il 41 per cento è ancora più pessimista e lo considera un problema irrisolvibile. Chi, tra i partiti in competizione, si sta rivolgendo a queste persone? Perché nessuno ne sta facendo il fulcro della battaglia di fronte a una situazione economica e sociale che si sta aggravando ogni giorno di più?
Il sospetto, quasi la certezza, è che non convenga: ciò che distingue la mafia da altre organizzazioni criminali, che pur ne hanno mutuato il metodo, è infatti il suo profondo radicamento sociale, la gestione del consenso e il suo interessato rapporto con la politica, un sistema relazionale collaudato con le persone “che contano”. Sorge così la nozione di rapporto clientelare che, come metodo, ha finito con il contaminare anche il rapporto tra elettore e partito politico. L’elettore che chiede benefici ne ricava il convincimento di avere tratto il massimo vantaggio dall’uso del voto; il partito politico, per la raccolta del consenso, si giova della via più facile, ovvero la promessa di una sapiente e mirata distribuzione delle risorse di cui dispone solo agli “amici”. La centralità dei meccanismi mafioso-clientelari ha addirittura funzionato come fattore di mobilità sociale. La principale possibilità di ottenere un posto, di far carriera, di far affari è stata individuata, a seconda dei casi, nel collegamento con una famiglia mafiosa o con una fazione politica.
Quando la mafia, come documentato da numerose indagini, interloquisce nella nomina di primari ospedalieri, nelle raccomandazioni per i concorsi, nelle candidature, nella nomina degli amministratori locali, nelle variazioni dei piani regolatori e così via, concorre alla pianificazione della vita pubblica e alla formazione della borghesia mafiosa, che costituisce l’interfaccia tra la base militare e il blocco politico-affaristico. Senza trascurare che, tra gli uomini d’onore organicamente inseriti nell’associazione mafiosa, si sono scoperti insospettabili medici, avvocati, amministratori, burocrati, bancari, imprenditori.
Non v’è dubbio che il mafioso che accumula enormi profitti, che controlla parti rilevanti del territorio, che influenza a suo favore i flussi della spesa pubblica, non potrà non difendere il suo potere tentando di piegare le istituzioni ai suoi interessi, di procurarsi magari una stampa favorevole e una protezione politica. Possiamo solo immaginare quanto questo possa essere ancor più vero in una fase in cui saranno investiti centinaia di miliardi di risorse pubbliche, attraverso i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in tutto il Paese. È un’occasione unica per trasformare l’Italia, ridurre le diseguaglianze sociali e territoriali, colmare il gap infrastrutturale e tecnologico che ci allontana dagli altri Paesi europei, ma è un’occasione irripetibile anche per le mafie. L’attenzione dovrà essere altissima, ma al momento non lo sembra.
Al contrario, le uniche proposte sulla giustizia entrate nel dibattito elettorale vengono da destra, e destano più che perplessità, perché provenienti da un ex magistrato, indicato come ministro della Giustizia del prossimo governo. La sottrazione al Pm, trasformato in avvocato della polizia giudiziaria, del potere di dirigere le indagini, con perdite di quell’indipendenza che rimane una garanzia per i cittadini contro l’abuso del potere; la separazione delle carriere, tema ventennale e ricorrente; l’abolizione dell’obbligo del pm di esercitare l’azione penale, finalizzato a garantire l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, con l’effetto di scelte discrezionali; la limitazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali, strumento principale per le indagini contro mafia e corruzione: questi sembrano segnali che possono entusiasmare chi vuole eliminare quei puntelli costituzionali posti a garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario dalla politica, al punto di invertire i rapporti tra politica e magistratura per assicurare l’assoluto predominio della prima sulla seconda. Conseguenza ampiamente prevedibile se si pensa al recente ritorno in campo, come protagonisti della politica, di personaggi che hanno espiato la condanna o che sono sotto processo per collusioni con la mafia. Ma non basta. Tale organico progetto politico appare ancora più inquietante nel momento in cui preveda di abrogare la legge Severino anche nella parte della incandidabilità di condannati con sentenza definitiva per gravi reati come quelli di mafia e di corruzione, così come ripristinare l’autorizzazione a procedere, abrogata a furor di popolo nel 1993 dopo Tangentopoli. Non bisogna avere la palla di cristallo per prevedere il crescente gradimento che inizia a riscuotere tale progetto non solo in chi è da tempo impegnato in un regolamento di conti con la magistratura, ma anche da parte di chi vuole, per utilizzare un paradosso che possa rendere bene l’idea, legalizzare l’illegalità. Cioè da parte di quel sistema di potere formato da imprenditori, professionisti, speculatori, faccendieri, mafiosi, burocrati e politici corrotti, per i quali nel mondo degli affari, degli appalti, delle pubbliche forniture, della grande distribuzione, l’illegalità è una risorsa, è quel collante per il successo a ogni costo, per una competizione con qualsiasi mezzo. Il rafforzamento del potere esecutivo, rispetto al legislativo e l’attacco all’indipendenza del potere giudiziario appaiono funzionali all’attuazione di un modello di accumulazione di capitali, a prescindere dalla loro provenienza, e alla realizzazione delle grandi opere, in gran fretta, abolendo o riducendo i controlli, all’insegna dell’affermazione di poteri di fatto e dei processi di finanziarizzazione, che offrono nuovi spazi alla simbiosi tra capitali illegali e legali. Le mafie, da parte loro, hanno capito da tempo che la strategia della sommersione paga, che bisogna controllare la violenza, che è più conveniente incrementare il sistema di relazioni. Per l’Italia il quadro che abbiamo tracciato presenta molti elementi che inducono a pensare che ci troviamo di fronte ad una questione morale, che, come diceva Berlinguer già nel 1981, si fa questione politica, e a una prospettiva di sistema di potere in cui l’illegalità viene rovesciata in legalità e questo va oltre la collusione di qualche politico con qualche boss o la commissione di uno o più reati da parte di singoli rappresentanti delle istituzioni. Perciò non basta contrastare la mafia. Bisogna rafforzare la democrazia, pretendere di più da noi stessi come cittadini e da coloro che ci rappresentano nei partiti, nella politica, nelle istituzioni, nei sindacati, nei movimenti, nelle associazioni di categoria. L’antimafia diretta alla repressione della criminalità mafiosa deve essere accompagnata dall’antimafia della correttezza della politica e del mercato, dell’efficienza della pubblica amministrazione, del buon funzionamento della scuola. I magistrati e le forze dell’ordine fanno in pieno il loro dovere.
Le istituzioni e la società civile devono fare un salto di qualità, cioè passare dall’emozione al progetto. Il problema è unire valori a interessi, unire la lotta alla mafia a un progetto di sviluppo economico, rafforzando l’economia legale, e a un progetto di partecipazione democratica. Bisogna incentivare la cultura della partecipazione, esatto contrario della cultura della delega. I processi di liberazione non avvengono attraverso la delega a un liberatore ma attraverso un impegno corale, quotidiano. Anche nel momento del voto.