Enrico Letta chiede un 4 per cento in più. Ma non a spese di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, piuttosto contro i 5 Stelle di Giuseppe Conte e il Terzo Polo di Calenda. Così è fallita la strategia del campo largo

La strategia in atto nei partiti del fu “campo largo” è stata esplicitata in maniera netta da Enrico Letta durante il discorso via Zoom rivolto ai candidati della coalizione di centrosinistra: «Un +4 per cento a Calenda o a Conte, tolto a noi, consentirebbero alla destra di superare il 70 per cento di rappresentanza parlamentare», i temuti due terzi dell’emiciclo. L’invito del segretario, dunque, non è tanto quello di andare a prendere i voti nel campo del principale avversario - il centrodestra - bensì di andarli a cercare all’interno del proprio, sottraendoli agli ex alleati. Peccato che anche loro abbiano cominciato a martellare i dem con lo stesso obiettivo. Qualche esempio: il M5S si presenta come il vero partito di sinistra, il Pd, dal canto suo, è convinto di essere l’unico argine alle destre e, infine, Calenda prende di mira tutti rivendicando l’ormai perduta indole riformista dei progressisti italiani. Il risultato è uno scontro fratricida che mira a racimolare qualche voto dall’interno. Qualche 4 per cento, per citare Letta. Mentre il centrodestra si appresta a fare il pieno di voti, negli ultimi giorni di campagna elettorale all’interno del centrosinistra è in atto la guerra per le briciole. 

Il fallimento della coalizione e la legge elettorale non hanno fatto altro che acuire le rivalità tra partiti non alleati. Nella sua parte maggioritaria, il Rosatellum, costringe gli sfidanti a una battaglia all’ultimo voto, premiando chi costruisce alleanze larghe e penalizzando chi corre diviso. Il fatto che il centrodestra abbia deciso di riunirsi sotto un unico cartello (operazione riuscita fin da subito), ha presto portato i partiti del centrosinistra verso un’amara rassegnazione: nei collegi uninominali le speranze sono poche, meglio andarsi a cercare i voti nella propria metà campo. È con questa chiave che va letta la campagna sul “voto utile” portata avanti dal Pd: come il tentativo di muovere le preferenze all’interno della propria area.

 

L’iniziativa “scegli”, infatti, punta più ad attrarre i voti dell’elettorato di centrosinistra, piuttosto che quelli del centrodestra. Il fine è quello di presentarsi come unico partito in grado di fare da argine alla destra di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Un ruolo, quest’ultimo, rivendicato anche dagli ex alleati e che pare essere diventato il vero trofeo in palio. Per constatarlo basta fare il giro delle dichiarazioni dei leader in risposta agli appelli al “voto utile” lanciati più volte da Letta. Carlo Calenda su Twitter: «Bloccheremo noi la destra sul Senato al proporzionale». Matteo Renzi da Milano: «Il voto ad Azione e Italia Viva è l’unico voto utile di queste elezioni». Giuseppe Conte su Facebook: «Letta vuole costruire un inganno per i cittadini, facendo credere che l’unico da votare in alternativa alle ricette insostenibili e inadeguate della destra della Meloni sia lui con il Pd». 

Questo è il clima che si respira all’interno del “campo largo” a pochi giorni dal voto. La guerra per le briciole, però, non si gioca sull’ambìto ruolo di “argine”. In palio ci sarà anche quello di partito-guida della sinistra italiana, quello della “vera” sinistra. Dopo aver fatto fronte comune per almeno metà legislatura, il 25 settembre Movimento Cinque Stelle e Pd si troveranno uno contro l’altro. I cavalli di battaglia su cui i due soggetti hanno deciso di impostare la campagna elettorale sono quasi gli stessi: ambiente, giovani e lavoro. Quello che cambia, semmai, è il modo in cui vengono presentati: Letta si mantiene pacato, mentre Giuseppe Conte ha abbandonato il politichese riscoprendo l’anima movimentista dei Cinque Stelle. Al di là dello stile, però, è un fatto che durante l’arco della legislatura i due partiti si siano molto avvicinati. Difficile dire se lo abbiano fatto anche i rispettivi elettori. Certo è che, col passare del tempo, le battaglie di uno sono diventate quelle dell’altro. Basta pensare al taglio dei parlamentari (votato anche dal Pd) o alle battaglie sui diritti (sostenute dal M5S). Non è un caso che ora i due si ritrovino a pescare i voti dallo stesso bacino. 

 

L’attivismo di Conte spaventa il Nazareno. Prima che entrasse il divieto di pubblicazione dei sondaggi, le agenzie demoscopiche avevano segnalato un Movimento in ripresa a scapito dei dem, soprattutto nel Mezzogiorno. La paura è che l’appello al “voto utile” di Letta, lanciato durante gli ultimi giorni di campagna elettorale, finisca col mancare il destinatario: l’elettore progressista. Merce rara in una campagna d’agosto guidata dalla destra a trazione sovranista, ancor più se a contenderselo non sono solo due partiti (Pd e M5s) ma una galassia di liste che marcia divisa. Soprattutto durante gli ultimi giorni, nell’ex campo largo è scattato il tutti contro tutti. Visto l’incerto comportamento di chi nelle rilevazioni si dichiara indeciso o astenuto, nel centrosinistra, nel M5S e nel Terzo polo, l’attenzione ha cominciato a concentrarsi sull’elettorato contendibile. Certo, lo hanno fatto proponendo temi e soluzioni diverse.

Carlo Calenda, ad esempio, ha cercato di differenziarsi dall’ex fronte giallo-rosso posizionandosi a favore del nucleare, contro il reddito di cittadinanza e facendo marcia indietro sulla depenalizzazione della cannabis. L’obiettivo dell’ex ministro dello Sviluppo Economico pare essere quello di attirare il voto riformista, attingendo dai moderati di centrodestra e dai delusi da quella che nel Terzo polo viene considerata come la deriva populista del Pd. Dipingere i dem come estremisti di sinistra va in questa direzione. Non è un caso che, ad esempio, dopo la sconfessione del Jobs Act da parte di Letta, dagli ex renziani - padri di quella riforma - siano piovute accuse di bolscevismo. «Archiviano Blair, commemorano la rivoluzione bolscevica del 1917 e fanno i manifesti rosso contro nero. È il nuovo Pd di Letta e Roberto Speranza», ha tuonato Ettore Rosato, coordinatore di Italia Viva. Del resto, il partito di Letta è il boccone più grosso rispetto agli altri partiti. E l’unico che al suo interno può vantare la convivenza di più anime: una parte più moderata (buona per Calenda) e una più a sinistra (appetibile per i Cinque Stelle). La coperta, però, rischia di essere corta. E il bottino, magro.