Oreste Gallo è uno dei pochi camici bianchi a usare la tecnica microinvasiva per verificare la presenza di cellule tumorali del cavo orale. Dirige il reparto di Otorinolaringoiatria all’ospedale universitario fiorentino Careggi ed è professore all’Università di Firenze. Nonostante il suo curriculum e le 225 pubblicazioni scientifiche, la sua carriera nell’università italiana non proseguirà oltre. Nel 2017 si è presentato alla Procura fiorentina anticipando i nomi dei vincitori di alcuni imminenti concorsi per professori ordinari. Da quella segnalazione è partita l’indagine Cattedropoli, a cui sono seguite altre inchieste che hanno messo in luce una rete di concorsi pilotati. «Diversamente dai colleghi sostengo che le cattedre vadano assegnate secondo il merito e il bisogno assistenziale. Per questo ho fatto denuncia. E cos’è cambiato? Possibilmente la mia posizione è ulteriormente peggiorata, mentre il sistema difende benissimo le proprie logiche clientelari. Sono stato vittima di diffamazione, di sanzioni disciplinari e depredato di un lavoro scientifico. La mia unità operativa è stata svuotata, sono rimasto a gestire una struttura a direzione universitaria senza alcun professore universitario. Anche l’attività medico-assistenziale ha subito contraccolpi». Nel 2020 Gallo pubblica sulla rivista The Lancet uno studio scientifico nel quale si stima che il 94 per cento dei concorsi viene vinto da un membro interno all’amministrazione che lo bandisce e nel 62 per cento dei casi si presenta un solo candidato, cioè il predestinato.
E allora perché pochi denunciano? Lo ha spiegato Giambattista Sciré, portavoce dell’associazione Trasparenza e Merito, alla Commissione Antimafia che ha chiesto contezza della situazione nelle università italiane: «Il sistema è omertoso. C’è una diffusa mafia accademica che si basa su scambio di favori, controllo del potere, spartizione dei posti e una stretta osservanza del codice del silenzio».
Sciré, che a sua volta è finito nel tritacarne di un concorso preassegnato alla facoltà di Storia a Catania, si rifà alle parole del Pm catanese Raffaella Vinciguerra, che parlando dell’operazione “Università bandita” ha detto: «Sul codice sommerso di comportamento dei docenti siamo rimasti, noi magistrati, basiti nel ritrovare delle conversazioni e delle modalità procedurali para-mafiose. È un codice sommerso basato sul ricatto e sul guadagno reciproco che prescinde assolutamente dal merito. La cosa che rattrista è che quella che dovrebbe essere la culla della scienza e quindi la speranza del Paese, in realtà adotta gli stessi metodi che noi magistrati ritroviamo nelle associazioni mafiose».
Numerose le inchieste che la magistratura sta conducendo sul sistema clientelare, che gli investigatori paragonano a quello mafioso, dell’assegnazione delle cattedre universitarie. Oltre all’inchiesta catanese “Università bandita”, c’è la fiorentina “Concorsopoli”, l’indagine “Magnifica” di Reggio Calabria che ha portato la magistratura a contestare il reato di associazione a delinquere e l’indagine della Procura di Roma che ha condannato in primo grado il rettore di Roma Tor Vergata Giuseppe Novelli dopo la segnalazione di illeciti nella gestione dei concorsi da parte dell’avvocato Giuliano Grüner e dell’attuale sottosegretario alla Sanità, Pierpaolo Sileri. Altre inchieste hanno coinvolto le università di Genova, Perugia, Torino, Palermo, Sassari, la Statale di Milano e l’Università San Raffaele con il coinvolgimento di dieci rettori.
«Probabilmente sarebbe ancora più estesa se ci fosse un sistema a tutela di chi denuncia. Al contrario, chi si affida alla giustizia finisce isolato dal resto dell’università e non sempre ottiene soddisfazione da parte della magistratura», afferma Sciré, che proprio in questi giorni sta attendendo l’avvio del processo a nove docenti imputati nel procedimento “Università bandita” il prossimo 21 settembre.
Fra i reati contestati c’è l’abuso d’ufficio, il falso, la corruzione per atti contrari ai propri doveri. La Corte d’Appello deciderà se accogliere il ricorso della Procura che vuole la conferma del capo d’imputazione principale, ovvero l’associazione a delinquere. Se ciò non avvenisse, l’intera inchiesta potrebbe velocemente sgonfiarsi perché la depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio, riforma voluta e ottenuta da M5S, Lega e Pd a inizio 2021 è una pietra tombale per i concorsi falsi, tanto che nel corso degli ultimi due anni sono decine le sentenze di archiviazione sulle università, fra le altre di Pescara, Foggia, Macerata, Firenze, Torino. Senza il supporto della magistratura, chi denuncia resta solo.
L’alternativa è andare all’estero, come ha fatto l’ingegnere Luciano Demasi, che oggi è professore ordinario al dipartimento di Aerospace Engineering della San Diego University, in California, dopo aver tentato per decenni di conquistare una cattedra al Politecnico di Torino, «ma ai concorsi vinceva sistematicamente il candidato interno al Politecnico di Torino. Nel 2016 ho denunciato alla Procura diverse irregolarità documentate da una sentenza del Tribunale amministrativo e dal Consiglio di Stato, che infatti hanno annullato il concorso stesso. L’inchiesta giudiziaria è andata per le lunghe e, a causa della depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, il procedimento è stato archiviato», dice l’ingegnere, che continua: «I concorsi truccati bloccano l’afflusso di docenti e ricercatori stranieri, sistematicamente respinti perché i posti sono stati preassegnati per lo più a candidati interni all’ateneo che bandisce il concorso. È un danno enorme per la ricerca italiana, che così facendo ha creato un drenaggio di ricercatori verso l’estero e non potrà mai, di conseguenza, raggiungere i livelli di Francia, Inghilterra, Spagna, Stati Uniti e Germania, al di là di quanti soldi si scelga di investire sull’università italiana».
Scalfire il sistema è oltremodo difficile, perché ad assecondarlo non sono solo le commissioni, scelte ad hoc per assegnare le cattedre ai candidati prescelti, ma l’intero mondo universitario. La riprova viene dalla delibera del comitato etico dell’università di Pisa, chiamato a esprimersi rispetto alla vicenda della docente di Economia Aziendale Giulia Romano. Nel 2017 l’allora ricercatrice denuncia alla Procura un concorso truccato nel suo dipartimento. Poco dopo il marito, Andrea Guerrini, a sua volta professore di Economia a Verona, incontra il presidente della commissione di quell’esame, Luciano Marchi, all’epoca docente di Economia Aziendale a Pisa, il quale ammette che il concorso a cui aveva partecipato Giulia Romano era stato prefigurato e che lei, nonostante fosse un’eccellente professoressa, non avrebbe mai fatto carriera perché non era sufficientemente accondiscendente rispetto al sistema.
Guerrini registra quella conversazione e la invia alla Procura e al comitato etico dell’Università di Pisa. Quest’ultimo si è espresso nel maggio 2022 (ovvero cinque anni dopo aver ottenuto la registrazione, le intercettazioni e altro materiale dalla Procura di Pisa) archiviando il caso. Perché? Perché l’università ha deciso di oscurare i nomi delle intercettazioni e, nonostante il contenuto della registrazione facesse emergere «un sistema patologico di selezione del personale docente», si legge nel resoconto del senato accademico che ha espresso il parere etico, l’assenza dei nominativi «non consentiva di collegare i soggetti alle condotte eticamente riprovevoli per la difficoltà oggettiva di decontestualizzarli con certezza».
E il processo? «Era partito sotto i migliori auspici: le intercettazioni avevano fatto emergere che più di un concorso era stato pilotato e che la condotta illecita era sistematica al punto da far ipotizzare alla Procura di Pisa l’esistenza di un’associazione a delinquere tra alcuni professori. Ma poi, dopo circa due anni, il reato di associazione a delinquere è stato “cancellato per errore” dalla stessa Procura. A cinque anni di distanza il processo a Marchi, quello che riguarda la registrazione e che è stato interrotto per vari rinvii, si appresta a riprendere il prossimo mese con un nuovo giudice», racconta Giulia Romano, che nel frattempo è riuscita a conquistare un ruolo da professore associato attraverso un concorso durato oltre due anni, fra rinunce e dimissioni dei commissari.
«Sul processo c’è anche la spada di Damocle della prescrizione, che scatta a gennaio 2024» e potrebbe salvare l’imputato: «Dopo quella denuncia sono stata allontanata dalla stragrande maggioranza dei colleghi e l’esito della commissione etica dell’ateneo è stata una grande delusione. Nella registrazione il professor Marchi diceva che io avevo tutto l’ateneo coalizzato contro. I fatti per ora non mi hanno convinto del contrario, purtroppo».