La società contemporanea è largamente pervasa dalla sofferenza psichica. Ma il budget sanitario è ridotto all’osso, dimentica giovani e scuole e ti costringe verso l’aiuto privato. I risultati del report nazionale dell’Asl Roma 2

Non c’è un abisso tra la salute psicologica e chi soffre di disturbi mentali. Ma una linea retta che unisce due poli che sono opposti solo alle estremità. «Parliamo di un continuum, indicare dove finisce lo stato di benessere e inizia il malessere non è semplice e dipende dalla storia di ogni persona», spiega lo psichiatra Massimo Cozza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 2, il più grande di Italia per bacino di utenza, circa un milione e 300mila persone. «Perché il disturbo mentale è bio-psico-sociale. Cioè determinato da più fattori: le problematiche di natura biologica, in particolare genetica e biochimica, si combinano con il percorso psicologico dell’individuo e con la componente sociale che ha una funzione fondamentale. Dall’istruzione all’inclusione, alle relazioni che la persona instaura con il contesto e con gli altri. Questi fattori messi insieme sono la causa dei disturbi mentali a cui noi dobbiamo rispondere. Come specialisti abbiamo il compito di avviare i percorsi psicoterapici e psico-farmacologici di riabilitazione. Ma tanto sta anche alla capacità di inclusione della società. Servirebbero maggiori risorse per i servizi pubblici per la salute mentale».

Anche perché l’Italia da oltre vent’anni non investe una quota adeguata del suo budget sanitario per tutelare la salute mentale dei cittadini. Nel 2001 i presidenti delle Regioni si erano impegnati a destinarle il 5 per cento dei fondi sanitari regionali ma quell’obiettivo non è mai stato raggiunto: la media nazionale è intorno al 3 per cento.

 

Eppure, ancora di più dopo la pandemia di Covid-19, sarebbe necessario. Come chiarisce Cozza si stimano 4 milioni di persone nel Paese che soffrono di disturbi psichici ma sono soltanto tra 800 e 900 mila quelle assistite nei dipartimenti di salute mentale pubblici. Questo non significa che le altre rimangano con certezza senza cura. «Una parte viene seguita dai medici di base, per i disturbi più lievi, e un’altra si rivolge direttamente al privato. Ma di questi non abbiamo dati. Anche il bonus psicologo si muove nella stessa direzione privatistica: uno strumento sbagliato che risponde a un’esigenza reale dei cittadini. Ai primi di settembre erano arrivate più di 210 mila richieste. Che continueranno a aumentare fino alla scadenza del prossimo 24 ottobre».

 

Come emerge, infatti, dall’indagine nazionale sulla salute mentale, promossa da Massimo Cozza e realizzata dalla società Bva Doxa, in occasione del Festival Ro.Mens per l’inclusione sociale e il pregiudizio, che si terrà a Roma dal 26 settembre al 2 ottobre 2022, la società contemporanea è largamente pervasa dalla sofferenza psichica. L’80 per cento degli intervistati afferma di essersi relazionato con persone che hanno disturbi mentali, più o meno gravi. Secondo la maggior parte della popolazione, questi non hanno un’intelligenza meno brillante o desideri, obiettivi, aspirazioni diversi da quelli di chiunque altro. Per circa tre quarti degli intervistati, infatti, andare dallo psicologo o dallo psichiatra non è più un tabù, sebbene chi soffre di disturbi psichici abbia scarsa propensione a parlarne: il 78 per cento si confiderebbe solo con la famiglia. Il 22 per cento dice che non ne parlerebbe con nessuno per la vergogna.

Secondo la ricerca che sarà presentata al Campidoglio martedì 27 settembre, non è, invece, molto alta la fiducia nella possibilità di guarire dal disturbo mentale, solo il 66 per cento degli intervistati ritiene sia possibile. La maggior parte crede che la cura debba avvenire nella collettività, non in luoghi isolati o privi del contatto con le persone. «È interessare rilevare che circa la metà della popolazione pensa che chi soffre di disturbi psichici sia pericoloso per gli altri, con la possibilità di diventare facilmente aggressivo e violento, non rispettoso delle regole sociali condivise, non in grado di lavorare con un buon livello di autonomia. Ma secondo le evidenze scientifiche non è vero che chi ha disturbi mentali è più pericoloso degli altri. La probabilità di comportamenti violenti è identica, con diversi determinanti legati alle storie personali. Una maggiore incidenza statisticamente significativa è stata rilevata solo in associazione all’abuso di sostanze. Chi soffre di disturbi mentali è più probabile che sia vittima e non attore di violenza. Questo vale, ad esempio, per le donne che hanno subito abusi sessuali», chiarisce Cozza.

 

Alla domanda: «Secondo te quale categoria di persone è più incline ad avere disturbi mentali in questo periodo storico?» Gli uomini pensano che siano gli uomini, le donne che siano loro i soggetti che ne soffrono di più. «Un dato contrastante che può nascere dalla convinzione per entrambi di svolgere una vita più stressante rispetto all’altro, con conseguente aumento della probabilità di soffrire di disturbi mentali, nonostante nei casi ci sia un sostanziale equilibrio», commenta Cozza. Ma la percezione degli intervistati converge con la realtà dei fatti quando affermano che sono i giovani tra i 18 e i 24 anni i più inclini allo sviluppo dei disturbi mentali. Soprattutto dopo il Covid-19, come certificano il grido di allarme dei pronto soccorso e tante altre ricerche redatte negli ultimi mesi. Tra cui il Rapporto sul benessere equo e sostenibile di Istat, di aprile 2022, secondo cui è raddoppiata la percentuale di adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale. O l’indagine “Chiedimi come sto? Gli studenti al tempo della pandemia”, condotta da Rete degli studenti medi, Unione degli universitari e Spi-Cgil, elaborata da Ires, l’Istituto ricerche economiche e sociali dell’Emilia Romagna. Un’indagine a cui hanno partecipato oltre 30 mila studenti, evidenziando la volontà dei giovani di essere coinvolti e raccontare il proprio vissuto, da cui emerge il ritratto di una generazione che per prima ha sperimentato la didattica a distanza. «Spoiler: stiamo male», dicono gli studenti. Il 60,3 per cento è molto preoccupato della propria salute mentale. Il 28 per cento ha disturbi del comportamento alimentare, il 14,5 di autolesionismo, il 24 per cento ha pensato di lasciare gli studi. Il 60 vede il futuro come precario e critico. Il 90 per cento vorrebbe un supporto psicologico a scuola. Che, anche quando c’è, non è detto che sia efficace.

 

Come spiega, infatti, Luca Ianniello, rappresentante nazionale della Rete degli studenti medi: «il primo passo è l’acquisizione della consapevolezza di avere un disturbo psichico. Subito dopo dovrebbe arrivare il supporto ma manca uno spazio dentro la scuola in cui gli studenti possano chiedere aiuto. O se esiste non funziona. Ad esempio resta aperto solo per due ore un giorno a settimana diventando di fatto inutilizzabile visto l’alto numero di studenti. Oppure succede che chi lo gestisce non sia abbastanza formato e competente. A volte sono gli stessi insegnanti della scuola. E questo causa un evidente problema di coinvolgimento. Anche perché capita che gli studenti vogliano parlare proprio del loro rapporto con i docenti. Il punto è che manca una strutturazione a livello nazionale e un piano di investimenti. Non c’è una normativa uniforme che garantisca a uno studente di Caltanissetta e a una studentessa di Udine di avere accesso allo stesso sistema di ascolto e di aiuto. L’unico riferimento è il Dpr n. 309 del 1990 che istituisce i centri di formazione e consulenza, i Cic, in seno al testo sulla tossicodipendenza. Ma non li norma. E nessuno si è più impegnato nel loro sviluppo». Mentre, come scrivono gli studenti nel manifesto “Cento idee per il futuro del Paese” che raccoglie le proposte per il governo che verrà, andrebbero aboliti Cic e istituiti degli Sportelli di assistenza psicologica e counseling nelle scuole. Oltre che dei veri e propri percorsi di educazione all’emotività e all’affettività.

Concorda anche Camilla Piredda, dell’Unione degli universitari: «Tra le università ci sono casi virtuosi. Gli atenei di Bari, Bologna e Padova hanno dei veri e propri sportelli di assistenza psicologica, sebbene anche altri abbiano costruito dei propri sistemi di supporto. Il problema, però, sta nella mancanza di fondi che compromette il servizio. Ci sono attese che vanno dai 6 ai 9 mesi solo per il primo colloquio conoscitivo. Altrettanto lunghi i tempi per l’inizio del percorso. Con la pandemia le richieste sono aumentate esponenzialmente. Fondamentale sarebbe una collaborazione con le Asl, sia per abbattere i costi e i tempi, sia per il supporto di specialisti». Come per gli studenti anche per Cozza è fondamentale rafforzare la rete dei servizi pubblici. Magari investendo quei due miliardi di euro che dal 2001 invalidano la promessa dei presidenti delle Regioni di impiegare il 5 per cento dei fondi sanitari per la tutela della salute mentale.