Negli Stati Uniti ci sono stati vari tentativi di replicare il leggendario festival del 1969. Quello del trentennale è stato un disastro assoluto di violenze e droga andata a male, raccontato in un documentario di Netflix

Il fatto che si sia svolto a Rome, in provincia di New York, non fa che sottolineare la grandiosità del disastro che fu l’improvvido tentativo di ricostruire la leggenda di Woodstock, trent’anni dopo. Un istruttivo e drammatico documentario visibile su Netflix col titolo “Trainwreck: Woodstock ’99”, racconta di questa impresa folle e male organizzata, che in realtà aveva avuto un preludio nel 1994 quando fu immaginata un’edizione del venticinquennale alla quale ho avuto la fortuna, o sfortuna a seconda del punto di vista, di partecipare.

 

Per motivi anagrafici avevo bucato l’edizione del 1969, quindi pensai che sarebbe stata una buona occasione, ma anche lì le cose non andarono tutte per il verso giusto: arrivarono 250mila persone, ci fu la pioggia di rito, c’era un cast di tutto rispetto e perfino alcuni dei reduci dell’edizione originale. C’era anche Bob Dylan, e insomma ci furono momenti esaltanti, era interessante vedere una nuova generazione di ragazzi che voleva vivere a suo modo lo spirito di Woodstock. Erano i giovani a renderla attuale e non pateticamente revivalistica. Ma eravamo consapevoli che la storia non fosse giusto ripeterla, e infatti al terzo giorno la maledizione si abbatté con feroce puntualità sotto forma di un disastro organizzativo di proporzioni inaudite. Era finito il cibo, i bagni chimici erano esplosi, l’organizzazione era completamente saltata, ci salvammo attraversando guadi di liquami puzzolenti e arrivando agli alberghi, piuttosto distanti, a piedi.

 

Fu una dura lezione che riguardava soprattutto il falso mito dell’organizzazione americana. Compresi che al confronto in Italia siamo impeccabili, maestri di efficienza e senso di responsabilità. In America al contrario erano irresponsabili e cialtroni, mettevano in moto eventi di proporzioni gigantesche senza averne il controllo. Non successe nulla di grave, per pura fortuna. Senza aver imparato nulla da questo disastro, hanno deciso di riprovarci nel 1999. Per fortuna quella volta ho resistito alla tentazione di andarci e il documentario di Netflix arriva oggi a confortare la scelta di allora.

 

Le tre puntate sembrano più che altro una serie horror, la prova di come un sogno di pace amore e bella musica possa trasformarsi in un incubo di violenze, droga andata a male, anarchia selvaggia, una sorta di regressione collettiva tipo “Il signore delle mosche”, colpa soprattutto dell’organizzazione che pensò a un’immensa piana di cemento che diventava bollente sotto il sole, con le bottigliette d’acqua a quattro dollari, pochissima sicurezza, nessun servizio di pulizia dell’area, una scaletta musicale poco ragionata e una generale disattenzione che fomentò la progressiva incazzatura del pubblico. Successero cose brutte, ma anche qui solo la buona stella della musica ha impedito che si trasformasse in qualcosa di ancora più tragico. Una lezione su come si può fare a pezzi un mito.

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