Grazie ai dati raccolti in orbita e all’Intelligenza Artificiale oggi è possibile monitorare le emissioni di CO2. E con i nuovi satelliti sarà possibile migliorare le previsioni degli eventi climatici estremi

«Siamo venuti a esplorare la Luna e abbiamo scoperto la Terra». Con queste parole Eugene Cernan, comandante di Apollo 17 e ultimo uomo ad aver calcato il suolo selenico giusto mezzo secolo fa, sottolineò l’emozione profonda che tutti gli astronauti “lunari” provarono guardando il nostro Pianeta splendere nel buio cosmico.

 

Il fascino è aumentato nel tempo: durante la missione Artemis I, conclusasi l’11 dicembre con un tuffo della capsula Orion al largo di San Diego, la Nasa ha arricchito non poco la raccolta di immagini della Terra vista dall’orbita lunare. Pura maraviglia, con la “A” che spalanca la bocca come ai bambini.

 

Non è un caso siano in molti a sostenere che il movimento ecologista sia nato in seguito alla consapevolezza diffusasi grazie all’iconica Terra che sorge, la foto scattata la vigilia di Natale del 1968 dall’equipaggio della missione Apollo 8. Fu un’idea nata all’improvviso, quando, uscendo dall’ombra della Luna, gli astronauti videro “sorgere” la Terra e decisero di immortalarla per condividere la magia del momento con tutti.

 

È indubbio la bellezza del nostro Pianeta sia uno stimolo per comprendere quanto sia importante difenderlo dall’azione antropica, capace di alterare l’ambiente e i suoi equilibri: le foreste hanno lasciato spazio a pascoli e campi coltivati, i fiumi sono stati deviati, sbarrati e prosciugati dall’eccessivo prelievo di acqua, l’inquinamento è ovunque. Non bastasse, la civiltà industriale ha modificato la composizione dell’atmosfera immettendo quantità enormi di anidride carbonica (CO2), con conseguenze significative sul clima.

 

La registrazione giornaliera della concentrazione atmosferica di CO2, detta “curva di Keeling”, è effettuata dallo Scripps Institution of Oceanography in vetta al Mauna Loa, alle Hawaii (e disponibile al sito: keelingcurve.ucsd.edu), mentre sull’impatto delle emissioni sono consultabili i Rapporti di valutazione periodici del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, o Ipcc, delle Nazioni Unite.

 

Le conseguenze della crescita dei gas serra, invece, sono davanti agli occhi di tutti: le estati diventano sempre più calde, le piogge più sporadiche ma intense, le alluvioni non di rado catastrofiche. Sono effetti del cambiamento climatico, legato all’utilizzo dei combustibili fossili che, bruciando, liberano anidride carbonica, un gas in grado di permanere a lungo nell’atmosfera contribuendo a intrappolarne il calore. Con il metano, è il gas serra per eccellenza: sono loro i responsabili del progressivo aumento delle temperature.

 

Beninteso, l’emergenza non è una novità: già nel 1992, 154 nazioni avevano sottoscritto lo Un Framework on Climate Change proprio per tagliare le emissioni e scongiurarne - o almeno ridurne - l’impatto climatico. Tre anni dopo si organizzò la Cop 1 a Berlino, ma si dovette aspettare il 2015, cioè la Cop 21 di Parigi, perché 194 Paesi si impegnassero a limitare il riscaldamento globale tra gli 1,5 e i 2 gradi centigradi. Manco a dirlo, le azioni concrete sono state insufficienti, tanto da rendere di tragica attualità le discussioni su come intervenire e, soprattutto, su chi debba pagare il conto, visto che il climate change ha anche la (non tanto) singolare caratteristica di colpire in particolare i Paesi più poveri esposti alle siccità prolungate e all’aumento del livello del mare. Come raccontato da Susanna Turco su queste pagine (il 27 novembre), è stato questo uno dei punti chiave affrontati alla Cop 27, tenutasi a Sharm el Sheikh, dove le nazioni più ricche hanno accettato, in extremis, di partecipare a un programma di risarcimento a favore delle nazioni la cui economia risente maggiormente dei danni dovuti al cambiamento climatico.

 

Una decisione considerata epocale, ma con un difetto: mentre i danni da alluvioni e inondazioni sono evidenti, come è possibile monitorare in dettaglio la produzione di gas serra? Quali e dove sono le attività che inquinano più?

 

Le migliori sentinelle oggi a disposizione sono i satelliti che controllano il nostro Pianeta, capaci di rilevare sia quel che si vede sia l’invisibile agli occhi. Sappiamo misurare la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera, ma per capire chi l’abbia prodotta occorre sfruttare ciò che viene emesso insieme con il gas. Per capire, ad esempio, quando e quanto inquini una acciaieria occorre utilizzare i satelliti che lavorano nell’infrarosso e misurano il calore liberato durante la lavorazione. Mentre, per monitorare le perdite di metano dai gasdotti o dai pozzi petroliferi, bisogna impiegare satelliti ad hoc. È perciò evidente che non esista una ricetta unica per monitorare i gas serra; vanno incrociati dati di fonti diverse.

 

È quello che fa Climate Trace, un’associazione no-profit che utilizza l’intelligenza artificiale per mettere a fattor comune quanto rilevato da 300 satelliti e 11mila sensori sparsi ovunque sul Globo. Trace sta per Tracking Real-time Atmospheric Carbon Emission; durante la Cop 27, Al Gore ha presentato il primo rapporto dell’organizzazione, che individua quasi 80mila inquinatori individuali. Benché Climate Trace riconosca e tracci una dozzina tra attività industriali, agricole e sociali che producono gas serra, la palma dei maggiori inquinatori va ai pozzi petroliferi, la cui emissione risulta essere il triplo di quella dichiarata. I combustibili fossili inquinano quando vengono estratti e trasportati, quando vengono raffinati e utilizzati. Una parabola non certo virtuosa, che oggi possiamo seguire in tempo reale attraverso le mappe pubblicate su climatetrace.org.

 

Misurare è un passo cruciale per combattere le emissioni di gas serra e per calcolare la compensazione per chi, pur non contribuendo all’inquinamento, è vittima delle sue conseguenze. Per questo è di fondamentale importanza ampliare e diversificare la flotta dei satelliti che opera alle diverse lunghezze d’onda.

 

Grazie alle risorse del Pnrr - 1,07 miliardi di euro più 230 milioni da fondi diversi -, l’Italia si doterà dal 2026 della costellazione Iride, che utilizzerà diversi tipi di apparati per monitorare lo stato del suolo. A inizio dicembre è stato firmato un contratto da 68 milioni di euro per la realizzazione dei primi 22 satelliti, dieci dei quali affidati alla torinese Argotec - già fra i protagonisti di Artemis 1 - e 12 a Ohb Italia. Forniranno alle istituzioni e a clienti privati immagini di alta risoluzione del territorio, che potrà essere monitorato grazie a passaggi frequenti. Solo così sarà possibile tenere sotto controllo le fragilità del nostro Paese, per contribuire alla prevenzione di eventi disastrosi come la tragedia di Ischia.

 

La prevenzione, però, deve poter contare sulla capacità di anticipare gli eventi atmosferici più violenti. Sarà uno dei compiti del nuovo satellite Meteosat Third Generation Imager-1 (o Mtg-I) lanciato il 13 dicembre per raggiungere il suo punto di osservazione privilegiato nell’orbita geostazionaria, giusto sull’equatore, da dove ha sempre l’Europa e l’Africa sotto il proprio occhio vigile. È il primo di una nuova generazione di sei satelliti europei in grado di fornire informazioni basilari per il rilevamento precoce di tempeste violente, oltre che per le previsioni meteo e il monitoraggio del clima. Frutto della collaborazione annosa tra l’Agenzia spaziale europea e l’Organizzazione europea per l’esercizio dei satelliti meteorologici (Eumetsat), progettato e costruito da un consorzio di oltre 100 partner industriali europei sotto la guida di Thales Alenia Space e Leonardo (in collaborazione con Ohb e con Telespazio a realizzare e gestire il “segmento di terra”), il satellite vanta anche il primo “cacciatore di fulmini” europeo, l’unico al mondo in grado di riconoscere anche il bagliore di un singolo fulmine nel cielo.

 

I dati di Mtg-I miglioreranno le previsioni anche su una scala temporale da minuti a ore, consentendo di fotografare la situazione quasi in tempo reale (il cosiddetto nowcasting). Basterà a scongiurare il peggio? No, ma come disse Cernan, grazie allo spazio la Terra si può conoscere. E, magari, imparare ad averne più cura.