Emozioni private. Gioco di squadra. E la certezza che scrivere è solo l’inizio del lavoro di una cantautrice. Che per le performance dal vivo preferisce vestiti comodi

«Mi vesto così perché con i pantaloni larghi e i tacchi bassi canto meglio»: ha le idee chiare Isotta, cantautrice attesa al varco nel 2023 per vedere se manterrà le promesse accumulate l’anno scorso, quando le chiedi perché, con il fisico che ha, si nasconda dietro tailleur oversize e scarpe da educanda. È una risposta al vecchio dilemma delle cantanti: come conciliare aspetto e musica, bravura e sex appeal? Non è un problema superato, e vale in tutto il mondo: basta considerare il duello a distanza tra Dua Lipa e Bebe Rexha. Voce simile, stesse radici albanesi, successo parallelo: ma mentre Rexha, che ha premuto molto di più sul pedale della bomba sexy (e ci gioca fino in fondo nel video di “I’m blue” con David Guetta), sbanca il box office dagli Stati Uniti, Lipa in Gran Bretagna sta costruendo una carriera più solida, in cui colleziona premi per la sua musica e riconoscimenti per le iniziative di impegno sociale.

 

Anche in Italia lo scontro è nell’aria, ed è bastato un post di Nina Zilli per farlo scoppiare: «Consiglio a chi volesse mai intraprendere la carriera da cantante e/o cantautrice: esci le canzoni belle, non la f***», ha scritto, proprio nei giorni in cui Elodie lanciava il nuovo video sempre più sexy (“Ok. Respira”) e Beatrice Quinta, la più chiacchierata finalista di “X Factor”, si faceva fotografare nuda nella metropolitana di Milano. Niente di simile per Isotta Carapelli, trentenne toscana che ha condito con alcuni tra i riconoscimenti più importanti della musica indipendente (il Bianca d’Aponte per cantautrici e due premi al festival Musicultura) il lancio del suo primo cd “Romantic dark” (uscito per Women Female Label & Arts, etichetta discografica tutta al femminile aperta anche ad arte e poesia). E che in questa intervista racconta come lavora una cantautrice in un Paese che nelle donne vede ancora solo grandi interpreti di canzoni altrui.

 

Partiamo dalla prima cosa che colpisce il pubblico: davvero se si veste oversize canta meglio?
«Sarà che sono timida, ma io a cantare seminuda non ci riuscirei proprio. Quando sono tornata al Teatro Cimarosa di Aversa per cantare al Premio D’Aponte avevo i tacchi e mi sentivo sui trampoli. E mi sono resa conto che non mi aiuta: trasmettere le mie emozioni al pubblico è più difficile se io fisicamente non mi sento a mio agio mentre canto. Cerco di guidare chi mi ascolta verso una certa atmosfera e per riuscirci devo fargli arrivare testo e musica, melodia ed elettronica. Vestirmi in modo da attirare troppo l’attenzione sul mio aspetto sarebbe controproducente. Ma sto ancora sperimentando...».

 

Firma tutte le canzoni del suo disco. Come le scrive? Nasce prima la musica o il testo?
«Generalmente parto da un'idea di testo, metto a fuoco un’emozione che voglio condividere con chi mi ascolta. Poi ci costruisco sopra un “beat” anche con l’aiuto dei musicisti con cui collaboro. Per esempio, una volta Pio Stefanini, con cui ho scritto quasi tutte le canzoni del disco, mi ha detto che andava a portare suo figlio a giocare a palla avvelenata. E io mi sono ricordata che da ragazzina non mi volevano mai in squadra: “Sai, ero grassa”, ho spiegato a Pio, “avevo i riflessi di un pesce morto”. E lui mi ha detto: “Vado e torno, tu butta giù questa storia che ci scriviamo un pezzo”. È nata così “Palla avvelenata”, una canzone sul bullismo che pensavo di non poter mai cantare in pubblico».

 

E invece?
«Invece l’ho cantata a Musicultura ed eseguirla in pubblico è stato catartico almeno quanto scriverla. Certo l’emozione quando canto dal vivo è ancora fortissima. Ma mi ha colpito una cosa che mi ha detto il mio pianista prima di salire sul palco a Recanati. Gli ho detto “Mamma mia, non si può vivere così: guarda come tremo, ho la bocca completamente secca». E lui mi ha risposto: “Ma è questo il bello di questo mestiere, se non ti emozionassi più che lo faresti a fare?”».

 

Che genere di emozioni racconta nelle canzoni del suo disco?
«La più personale è quella con cui ho vinto il Premio d’Aponte, “Io”. All’inizio ho scritto le prime due strofe, in metrica, su un ritmo che avevo in testa ma senza musica. Volevo raccontare un viaggio interiore, la ricerca dell’energia che ti spinge in strade diverse rispetto a quella che stavi percorrendo. Io ho sempre aspirato alla musica ma per sicurezza facevo anche l'università. E in quella canzone ho voluto raccontare l’esigenza di darmi una spinta in più verso un percorso che sentivo vitale».

 

Ha frequentato una scuola per cantautori?
«No: fin da piccola ho fatto lezione di canto, poi di solfeggio, ma per la scrittura ho iniziato da sola, e imparo dagli autori con cui collaboro. Già a sei anni, con la prima maestra di canto, ho scritto la mia prima canzoncina - me la ricordo ancora anche se era una cosa indecente… A 14 anni l'ho presa un po’ più seriamente perché sentivo proprio il bisogno di cantare parole mie. Alle canzoni del disco ho iniziato a lavorarci cinque o sei anni fa».

 

E nel suo futuro cosa c’è?
«Sto lavorando al secondo album, sto chiusa in studio a scrivere e mettere in musica. Fare dei live è sempre un piacere, anche poter portare la mia musica a delle orecchie esterne. L’estate scorsa ho aperto i concerti di Madame, Raphael Gualazzi, Simona Molinari ed è stato bellissimo cantare davanti a un pubblico così grande. E in posti meravigliosi: grazie a Musicultura ho cantato in giro per l’Italia, in posti stupefacenti come lo Sferisterio di Macerata o a Paestum, davanti al tempio di Poseidone: uno scenario davvero mozzafiato, un’emozione che non è il massimo se devi cantare! Però ora penso solo a scrivere: mi capita di sognarle di notte, le parole di una canzone. Poi appena sveglia le scrivo su un blocchetto, anche se poi magari quando le rileggo non mi piacciono più...».

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