«Giorgio Gaber? Sono stato uno dei primi a scoprirlo. Conservo un 45 giri in cui lui ancora non firmava da solista, era del gruppo Rocky Mountain Old Times Stompers, che lui fondò con Enzo Jannacci, Luigi Tenco, Paolo Tomelleri e Gian Franco Reverberi».
Lo dice con un certo orgoglio Renzo Arbore, mattatore della tv e ambasciatore della musica italiana nel mondo. «Per uno come me che apparteneva al mondo del jazz non era facile ammettere che un artista come Gaber, che faceva musica country e rock and roll, fosse così bravo. Noi jazzisti avevamo un po' la puzza sotto il naso quando sentivamo parlare di rock and roll, ma Gaber incantava tutti, e così cominciai ad affezionarmi alla sua musica, a seguire il suo percorso artistico».
Una carriera densa quella di Gaber (all’anagrafe Giorgio Gaberscik), nato a Milano il 25 gennaio del 1939 e morto il primo gennaio del 2003 in Versilia. Gaber iniziò a suonare come chitarrista nel gruppo di Ghigo Agosti (Ghigo e gli arrabbiati), poi entrò nei Rock Boys, il complesso di Adriano Celentano, e subito dopo nacquero i Rocky Mountain Old Times Stompers. Nell’estate del 1958 cominciò a sperimentare le sue doti canore. Un giorno fu notato da Nanni Ricordi e iniziò la sua carriera da cantante di successo che tutti noi conosciamo. Ma forse la definizione più giusta per lui è quella di intellettuale. A 20 anni dalla sua scomparsa, ne parliamo con Renzo Arbore, che sta lavorando a un progetto per Rai Cultura in cui rilegge le varie tappe della musica italiana, compresi i brani musicali del Signor G, recuperati integralmente.
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Che ricordo ha di lui?
«Gaber era una persona di grande talento, ma non amava la tv, e questo è un peccato. L’avevo invitato tante volte quando conducevo “L’altra domenica” su Rai 2 ma non accettò mai il mio invito».
All'inizio della carriera si esibiva al Santa Tecla, a due passi dal Duomo, in cui passavano Adriano Celentano e Mogol…
«Sì, in quegli anni Santa Tecla era un club frequentato anche da Luigi Tenco, Gino Paoli, Enzo Jannacci e tanti ragazzi che sognavano il successo. Diciamo che artisticamente Gaber ha avuto due grandi periodi. Il primo fu quello in cui a scrivere le sue canzoni era Umberto Simonetta, che aveva scoperto anche Jannacci. Il suo successo più grande fu “La ballata del Cerutti”, nel 1960, ma ci furono anche “Trani a gogò” o “Il Riccardo”, tutte canzoni ricche di poesia che raccontavano ciò che accadeva al bar del Giambellino, in cui Gaber passava le sue serate e di cui raccontò più avanti anche nel brano “Le nostre serate”, pentito di quelle “serate stupide e vuote”. In quegli anni erano nate anche “Torpedo blu” e “Non arrossire”, ma ad un certo punto Gaber capì che doveva inventare qualcosa di diverso».
Cosa cercava?
«Non voleva solo cantare le sue “canzoncine” e venderle. Per questo incontrò Sandro Luporini, poeta, scrittore, con il quale inventò “Il Signor G”, che ha fatto molto discutere ma ha anche narrato quel periodo lì. Erano gli anni di piombo, gli anni delle proteste e i cantanti dovevano essere “impegnati”. Attraverso il Teatro Canzone, genere di cui Gaber fu l'inventore, rifletteva su tutto ciò che accadeva. Negli anni Settanta lui era controcorrente, critico, ma era anche discutibile. C’era uno sdoppiamento da parte sua, come ci indica anche il titolo dell'album “Dialogo fra un impegnato e un non so”. Una sua frase della canzone “Un’idea” diceva: “Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”. Quando uscì il brano “La libertà”, in cui cantava che la libertà era uno spazio di partecipazione, non uno spazio libero, fu accusato di essere ambivalente».
Negli ultimi anni di Teatro Canzone fu però molto critico nei confronti della società.
«Quando uscì “Far finta di essere sani” fu molto critico verso il governo e cominciò a raccontare le paure dell'epoca, i suoi monologhi interpretavano la società di allora, finché scrisse “Io se fossi Dio”, un brano spiazzante che era un’invettiva contro tutti, giornalisti, politici, intellettuali. Negli anni di piombo scrisse anche “Qualcuno era comunista” e “Destra-Sinistra”, una canzone scherzosa ma ricca di significato. Verso gli anni di fine carriera uscì l’album “E pensare che c'era il pensiero”. La seconda vita di Gaber è stata un inseguimento del pensiero che voleva analizzare, criticare, condividere. Gli anni di piombo erano gli anni di Marcuse, Mao, Adorno, ma io penso che in fondo in fondo Gaber fosse un liberale. Lui non si esponeva, voleva decifrare, era stordito dalla politica invadente che etichettava».
Esattamente 10 anni fa lei reinterpretò “Non arrossire”, immagino sia uno dei suoi brani preferiti…
«Sì, “Non arrossire” è un brano che ho amato molto, che interpretai a Viareggio con Stefano Di Battista in un concerto organizzato da Dalia, la figlia di Giorgio. Amo molto anche “Porta Romana”. Mi piaceva quel modo che aveva Gaber di raccontare Milano, lo faceva talmente bene che era impossibile non innamorarsi. Noi “terroni” subivamo il fascino di Milano. E così ho continuato ad amare Gaber per tutta la vita»
Qual è l'eredità di Gaber, perché ancora oggi lo ricordiamo?
«Aveva visto lontano, i suoi brani sono ancora attualissimi, perché affrontava delle tematiche che riguardavano tutti. È importante comporre canzoni a futura memoria. Ed è giusto riscoprirle, come fanno portandole in giro nei teatri Neri Marcorè o Andrea Scanzi».
Gaber parlava spesso di politica, di libertà. Cosa direbbe Gaber della società di oggi?
«Sono argomenti sempre attuali. Ma oggi credo che Gaber sarebbe un cane sciolto, assolutamente critico e perdente, i suoi ideali non sono stati realizzati, sarebbe un deluso della società».
Esistono Festival, manifestazioni, c'è una Fondazione che rendono omaggio a Gaber. Si può insegnare il pensiero critico?
«Certo, Gaber è senza dubbio da approfondire. Io credo che andrebbe studiato nelle scuole. Penso sia giusta questa riscoperta di un cantante che è riuscito a fotografare un’epoca complicata. Il suo era un pubblico di sinistra, acculturato, con cui doveva fare i conti. Ma era molto amato».