Versano risarcimenti record per evitare i processi. Ma per decine di multinazionali sono diventati costi aziendali, come mostrano i casi di recidiva. L’inchiesta de L’Espresso e del consorzio Icij su vent’anni di maxi-patteggiamenti in Europa e Usa, da Jp Morgan a Novartis, dall’Eni a Deutsche Bank

La multinazionale svizzera Novartis produce farmaci fondamentali per le cure contro il cancro e molti altri preziosi medicinali e dispositivi sanitari, che ne fanno una delle aziende più redditizie del mondo. La banca americana Jp Morgan è una delle più ricche del pianeta, con un patrimonio di oltre 2.600 miliardi di dollari. L’Eni, controllata dallo Stato italiano, è una delle sette maggiori compagnie petrolifere a livello globale e nei primi nove mesi del 2022, con l’impennata dei prezzi del gas, ha quintuplicato gli utili. Anche la tedesca Deutsche Bank è tornata a registrare profitti miliardari per il nono trimestre consecutivo, dopo anni di crisi e perdite.

 

Novartis, Jp Morgan, Eni e Deutsche Bank hanno in comune un’altra peculiarità, oltre al potere economico e ai profitti record. Sono state tutte coinvolte in casi di corruzione internazionale o in altri scandali finanziari. Negli ultimi dodici anni, ognuna di queste società ha dovuto affrontare delicati procedimenti giudiziari, chiusi con patteggiamenti che hanno comportato il pagamento di somme molto consistenti, con l’impegno scritto di non commettere mai più altri reati. Eppure, nonostante questi accordi legali, sono finite di nuovo sotto accusa e hanno patteggiato ancora una volta, in particolare negli Stati Uniti. Dal 2010 ad oggi, Jp Morgan ha scelto di pagare e risarcire le autorità per cinque volte, Novartis e Deutsche Bank in quattro casi, l’Eni in tre.

La piattaforma offshore PCW-C di Eni Gas, vicino alla spiaggia di Dante sulla costa adriatica italiana

Il patteggiamento è uno strumento legale per chiudere i processi penali, con un accordo tra accusa e difesa, che è nato negli Stati Uniti e negli ultimi decenni si è diffuso in tutto il mondo. Oggi questo modello di giustizia contrattata riguarda molti dei più importanti procedimenti che coinvolgono grandi aziende, anche in Italia. La possibilità di evitare i processi attraverso i patteggiamenti è stata spesso criticata da giuristi, accademici, magistrati e politici di molte nazioni, ma è ormai diventata una tendenza globale. Questo articolo è il frutto di un’inchiesta giornalistica internazionale che, per la prima volta, quantifica il numero e il valore dei patteggiamenti approvati negli ultimi vent’anni in trenta nazioni diverse, dall’America all’Europa, ed evidenzia i casi più gravi di recidiva aziendale: giganti dell’economia che, dopo aver pagato forti sanzioni per accuse pesanti, tornano a commettere illeciti. E patteggiano di nuovo, per una o più volte, anche nel giro di pochi anni.

 

I documenti raccolti dalI’International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte L’Espresso in esclusiva per l’Italia, confermano la rilevanza e la diffusione globale dei patteggiamenti. In questi vent’anni, almeno 265 grandi aziende hanno evitato i processi, nelle trenta nazioni considerate, versando alle autorità un totale di oltre 34 miliardi e 900 milioni di dollari, tra multe e rimborsi di vario tipo. Il valore di questi accordi giudiziari è in costante aumento. Nel 2000, il prezzo più alto pagato da una singola società per evitare un processo era stato di 844 mila dollari, nel 2020 è salito a due miliardi e mezzo. I dati rilanciano anche l’allarme sui casi di recidiva: 34 multinazionali, 21 delle quali inserite nella classifica delle 500 società più grandi del mondo, hanno patteggiato per almeno due volte. Dopo aver pagato sanzioni per sfuggire ad accuse di corruzione, frode o evasione fiscale, hanno violato di nuovo la legge, spesso pochi anni dopo. E hanno potuto patteggiare ancora.

«La proliferazione globale dei patteggiamenti aziendali sul modello americano è allarmante», ha dichiarato al consorzio Icij il giurista Peter Reilly, professore di diritto alla Texas A&M University: «Patteggiare è come pagare una multa per eccesso di velocità: si versa una somma e poi si riparte. Lo Stato di diritto ne risulta compromesso, la giustizia è minacciata, la democrazia viene indebolita».

Peter Solmssen, un avvocato che ha contribuito a scrivere le linee guida internazionali per i patteggiamenti, spiega che «l’applicazione della legge “vecchio stile” non funziona più». Una questione critica è che le sentenze normali sono pubbliche e vanno motivate, mentre le trattative sui patteggiamenti si svolgono a porte chiuse e in molti casi restano segrete. Uno dei magistrati più famosi degli Stati Uniti, Lewis Kaplan, per anni giudice a New York, ha confessato di essere preoccupato dalla diffusione dei patteggiamenti, avvertendo che gli stessi tribunali americani hanno un’autorità limitata per contestarli: «In pratica sono obbligato a ingoiare la pillola, che mi piaccia o no».

Il fenomeno della globalizzazione dei patteggiamenti ha avuto un punto di svolta nel 2008. Quell’anno le autorità della Germania e degli Stati Uniti accusano la Siemens, il gigante tedesco dell’elettronica, ingegneria e impianti energetici, di aver utilizzato fondi neri e società di comodo per pagare tangenti enormi, per un totale di 1 miliardo e 400 milioni di dollari, per aggiudicarsi contratti in tutto il mondo. Per chiudere i processi, la casa madre Siemens e le sue filiali in Bangladesh, Argentina e Venezuela hanno versato 800 milioni di dollari agli Stati Uniti e altri 813 milioni alla Germania. Il gruppo ha inoltre accettato di pagare 421 milioni di dollari ad altri quattro Paesi danneggiati dalla corruzione, Italia, Svizzera, Nigeria e Grecia, e 100 milioni alla Banca Mondiale. Con quegli accordi legali, la Siemens si è impegnata a non violare più la legge, in nessun Paese del mondo.

Questa inchiesta giornalistica nasce dal caso Ericsson. Pochi anni fa, la multinazionale svedese delle telecomunicazioni era stata incriminata dalle autorità americane per aver pagato tangenti in almeno sei nazioni. L’inchiesta ha spinto la Ericsson a negoziare un costoso patteggiamento: nel 2019 ha versato un miliardo di dollari per chiudere il procedimento americano, impegnandosi a denunciare tutte le sue corruzioni nel mondo. Nel febbraio 2022, però, il consorzio Icij ha pubblicato, assieme a L’Espresso, una serie di documenti aziendali, fino ad allora rimasti segreti. Le carte mostrano che nel 2019, proprio mentre patteggiava, il gruppo Ericsson aveva in corso un’indagine interna su tangenti per decine di milioni pagate in Iraq, che risultavano versate anche a tesorieri e perfino a combattenti dello Stato Islamico. Pochi giorni dopo quell’articolo, le autorità americane hanno accusato la multinazionale svedese di aver violato l’accordo di patteggiamento, precisando che si trattava della seconda infrazione accertata in meno di sei mesi.

Il problema della recidiva riguarda molte altre aziende di livello mondiale. Nel dicembre 2022, ad esempio, la multinazionale svizzera Abb ha patteggiato, per evitare una serie di processi con l’accusa di aver pagato tangenti per costruire una centrale elettrica in Sudafrica. Quell’accordo giudiziario da 327 milioni di dollari, concluso con le autorità statunitensi, svizzere e sudafricane, fa della società di Zurigo la prima azienda straniera accusata per tre volte di aver violato le norme americane contro la corruzione internazionale. Norme severe, approvate negli anni ’70 sull’onda dello storico scandalo Lockheed, che coinvolse anche l’Italia.

Nel gennaio 2021, un altro colosso aeronautico americano, la Boeing, ha stabilito l’attuale record mondiale dei patteggiamenti. Al centro delle indagini, due incidenti aerei che hanno coinvolto i modelli 737 Max, nel 2018 e 2019, con un bilancio di 346 vittime. Come mai sono precipitati in picchiata? Gli investigatori federali americani hanno concluso che la Boeing aveva tenuto nascosti gravi difetti di progettazione. Per evitare il processo, la multinazionale americana ha risarcito 2,5 miliardi di dollari. Le famiglie delle vittime hanno ricevuto 500 milioni, ma hanno contestato l’accordo, chiedendo che sia annullato e i manager della Boeing vengano processati.

A infiammare le critiche è anche la potenza economica di molte società che fanno parte di una sorta di club dei recividi: è il caso di Jp Morgan, che negli ultimi otto anni ha patteggiato per quattro volte, negli Stati Uniti, per quattro diversi scandali finanziari. L’ultimo accordo è del 2020: il colosso finanziario ha ammesso di aver manipolato i mercati dei futures, come già aveva fatto cinque anni prima. In totale, Jp Morgan ha pagato più di 3 miliardi e 400 milioni di dollari per evitare i processi. A conti fatti, però, quella cifra corrisponde a meno di un cinquantesimo dei profitti realizzati dalla banca americana nello stesso periodo.

Tra le società europee, la medaglia d’oro dei recidivi spetta alla Deutsche Bank. La banca tedesca è stata incriminata dalle autorità americane per aver ingannato i risparmiatori offrendo prodotti finanziari ad alto rischio, poi annientati dalla crisi del 2007-2008. Quindi si è vista accusare di aver aiutato migliaia di ricchi clienti a evadere le tasse fino al 2010. Poi di aver manipolato i tassi d’interesse fino al 2015. In tempi recenti, la Deutsche Bank ha deciso di pagare 150 milioni di dollari, per sfuggire all’accusa di non aver monitorato i rapporti finanziari di Jeffrey Epstein, il miliardario condannato per abusi sessuali, poi morto suicida. E nel 2021 la banca tedesca ha versato altri 130 milioni di dollari, questa volta per evitare un processo con l’accusa di non aver denunciato un giro di tangenti per vincere contratti in Arabia Saudita.

Le autorità americane hanno accusato pubblicamente anche una società italiana di aver violato ripetutamente le norme anticorruzione: «L’Eni è recidiva», ha scritto la Sec, la commissione americana di controllo delle società quotate in Borsa, in un comunicato del 2020. Quell’anno il colosso italiano dell’energia, senza ammettere di aver commesso illeciti, ha versato 24 milioni e mezzo di dollari agli Stati Uniti, per chiudere un procedimento su presunte tangenti pagate in Algeria. Con questo accordo, l’Eni si è impegnata a non violare le norme contro la corruzione internazionale, le stesse che aveva promesso di non trasgredire dieci anni prima. Quando aveva siglato il suo primo patteggiamento americano. Il caso riguardava un maxi-impianto di estrazione di gas a Bonny Island, in Nigeria, aggiudicato a una cordata di tre società occidentali, tra cui la Snamprogetti del gruppo Eni. Accusata con le altre multinazionali di aver corrotto ministri e generali africani con oltre un miliardo, la società italiana ha chiuso il caso, nel 2010, versando 365 milioni di dollari alle autorità americane. Proprio quel precedente ha spinto la Sec a parlare di recidiva, nel 2020, quando il gruppo Eni ha concordato il secondo risarcimento, questa volta per gli affari in Algeria di un’altra società controllata, la Saipem. In Italia, per le stesse accuse, tutti i manager della Saipem sono stati assolti in appello, per cui l’Eni non ha dovuto risarcire nulla.

Nel 2021, però, l’azienda statale ha siglato un patteggiamento con la Procura di Milano, che l’accusava di aver pagato tangenti nella Repubblica del Congo. Con la sentenza finale, l’accusa di corruzione è stata derubricata in un reato meno grave, «concussione per induzione». A quel punto l’Eni ha accettato di pagare una multa di 826 mila euro e di farsi confiscare altri 11 milioni come «profitti illeciti».

I giornalisti del Consorzio hanno inviato domande dettagliate a tutte le società menzionate in questo articolo, compresa l’Eni, che ha risposto con una nota scritta. Il gruppo italiano ha potuto così chiarire che il caso del 2010 in Nigeria riguardava «un’ex controllata», la Snamprogetti, una società che oggi non esiste più. Ha sottolineato che «l’Eni non ha mai fatto alcuna ammissione di corruzioni in Algeria» e che i processi italiani per le stesse accuse si sono conclusi con assoluzioni piene. Mentre in Congo «l’Eni ha patteggiato solo per un’accusa minore, non di corruzione», versando «un importo relativo e nominale».

I casi più preoccupanti di recidiva, secondo i dati raccolti con questa inchiesta, riguardano i colossi sanitari: ben dieci tra i maggiori produttori mondiali di farmaci e dispositivi medici (dalle protesi alle valvole cardiache) hanno patteggiato almeno due volte. La Novartis è ormai al quarto patteggiamento per corruzione. Nel 2010 aveva pagato oltre 422 milioni di dollari alle autorità americane per due accuse collegate: commercio di farmaci non regolari; tangenti a medici e operatori sanitari per prescriverli ai pazienti. Nel 2015 il colosso svizzero ha versato altri 390 milioni «per aver continuato, nonostante le sanzioni precedenti, a finanziare convegni e conferenze che erano solo strumenti per pagare mazzette». Poi ha siglato un ulteriore accordo, impegnandosi a bandire le tangenti e sottoporsi a «controlli d’integrità». Nel 2020 però ha patteggiato ancora una volta, pagando 591 milioni di dollari, per annullare l’ennesima accusa di aver corrotto medici per vendere più farmaci. Anche con l’ultimo accordo, i manager della Novartis si sono impegnati a dare un taglio netto con i metodi del passato.

 

Questa inchiesta è frutto del lavoro collettivo dei giornalisti de L'Espresso, del consorzio Icij e di altre testate internazionali, in particolare Sydney P. Freedberg, Karrie Kehoe, Agustin Armendariz, Nicole Sadek, Brenda Medina, Maggie Michael, Spencer Woodman, Ben Hallman, Dean Starkman, Richard H.P. Sia, Emilia Díaz-Struck, Lars Bové, Guilherme Amado, Zach Dubinsky, John Hansen, Anne Michel, Adrien Sénécat, Frederik Obermaier, Bastian Obermayer, Marvin Milatz, Friederike Röhreke, Ruben Schaar, Karlijn Kuijpers, Fredrik Laurin, Christian Brönnimann, Jiyoon Kim, James Oliver.