La direttiva europea sull’efficientamento degli edifici ha provocate pesanti reazioni da parte di vari esponenti della maggioranza, tra cui Salvini («la casa degli italiani è sacra, non si tocca e non si tassa»), Foti (Fdi; «patrimoniale camuffata») e Gasparri (Fi; «cervellotica visione dell’Ue»). Chiariamo la questione.
La direttiva per ora è stata approvata solo dal Consiglio Europeo, convocato a livello di ministri dell’Energia, il 25 ottobre, col voto favorevole del ministro Pichetto Fratin. Quindi, il governo ha votato a favore del provvedimento, anche se forse il ministro, alla sua prima riunione, non aveva, come dire, beneficiato di un’ampia consultazione con i suoi colleghi. Il Parlamento Europeo deve ora approvare la direttiva (1500 emendamenti presentati). Il primo voto è previsto il 9 febbraio alla Commissione Industria per una discussione in aula forse a marzo. Poi ci sarà il cosiddetto “trilogo” tra Commissione, Consiglio e Parlamento per concordare un testo comune. Quindi un nuovo voto da Consiglio e Parlamento. Questa fase potrebbe essere completata entro sei mesi. Infine, la direttiva deve essere trasposta nella legislazione dei vari paesi. Insomma, il percorso è lungo.
Veniamo alla sostanza. Nella versione della direttiva approvata dal Consiglio Europeo (con il voto, ripeto, del governo italiano) vi sono diverse disposizioni per edifici pubblici, privati non residenziali e residenziali, nuovi e vecchi. Per semplicità, mi concentro sui vecchi edifici residenziali, quelli che più ci preoccupano. Entro il 2033 tutti questi edifici dovranno aver raggiunto almeno la classe energetica D (con la classe E come traguardo intermedio al 2030), anche se eccezioni sono permesse. I dati Enea-Cti indicano che il 78% delle nostre case (circa 9 milioni) richiederebbe una ristrutturazione. È una sovrastima perché basata sulla classe dichiarata alla compravendita (non necessariamente affidabile) e non comprende gli interventi del superbonus (quasi 400.000). Ma si tratterebbe comunque di ristrutturare parecchi milioni di case, un intervento costoso e complicato da gestire. La direttiva prevede la possibilità di sussidi pubblici, ma, anche ipotizzando interventi contenuti, lo sforzo richiesto potrebbe essere dell’ordine dei 100-200 miliardi (quest’ultima cifra è l’intero importo dei finanziamenti ricevuti per il Recovery Plan).
Che fare? Una cosa è certa: abbiamo edifici che consumano troppo, che gonfiano le nostre bollette e che inquinano troppo. Non sono solo le emissioni di C02: per esempio, in Lombardia il riscaldamento delle case è tra le principali cause di emissione di polveri sottili, che certo non fanno bene ai nostri polmoni. Quindi, la ristrutturazione dei nostri edifici è necessaria. Invece di demonizzare la direttiva europea dovremmo allora cercare di negoziare un percorso di aggiustamento che tenga conto delle nostre peculiarità e di ottenere dall’Ue finanziamenti che aiutino lo sforzo italiano nell’investire nelle nostre case, il cui valore aumenterà. Ripeto, è un investimento non una patrimoniale. Questo investimento comunque deve esserci se ci teniamo al nostro pianeta, alla nostra salute e magari ad avere una bolletta più bassa.