Non è un Paese per giovani. E non è nemmeno un Paese per laureati. Ce lo dicono i dati di Eurostat, dipingendo il quadro desolante che riguarda la percentuale di persone in possesso di una laurea.
L’Italia ha il secondo dato più basso di tutta Europa, con il 28,3 per cento dei giovani tra 25 e 34 anni in possesso di una laurea (e molte differenze regionali che aggravano il problema). Il dato sul tasso di laureati non è un indicatore irrilevante perché porta con sé molte informazioni preziose. Il raggiungimento di un titolo universitario, infatti, è un elemento chiave di mobilità sociale. Se il livello di istruzione è basso, si riscontrano incidenze di abbandoni precoci molto elevate nelle scuole. L’abbandono degli studi prima del diploma riguarda più di un quarto dei giovani con genitori aventi al massimo la licenza media, scende al 6,2 per cento se i genitori hanno un diploma di scuola superiore e al 2,7 se almeno un genitore è laureato. Riuscite a cogliere le implicazioni di lungo periodo?
L’Istat monitora anche il numero di giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo e non impegnati in un’attività lavorativa — i cosiddetti Neet (Neither in Employment nor in Education or Training) — che, pur presentando caratteristiche e motivazioni di base diverse, hanno in comune una condizione che, se protratta a lungo, può comportare il rischio di concrete difficoltà di inclusione nel mondo del lavoro. Nel 2021, in Italia, la quota di Neet sul totale dei 15-29enni è pari al 23,1 per cento, di 10 punti percentuali superiore a quella europea. L’Italia, perciò, continua a registrare la più alta quota di Neet nell’Unione Europea a 27 Paesi, decisamente più elevata di quella osservata in Spagna (14,1%), Francia (12,8%) e Germania (9,2%).
Non è una carrellata di mestizia sociale, ma una riflessione che parte dai dati, dai quali ci facciamo guidare in un’altra riflessione spesso sottovalutata.
Se si analizzano le statistiche dei ricercatori che ricevono un finanziamento Erc (European Research Council, una delle istituzioni più importanti), emergono altri spunti preziosi. Alcuni Paesi, come Francia, Germania o Spagna, presentano un equilibrio perfetto tra emigrazione e immigrazione: vuol dire che per un 30 per cento di ricercatori che abbandonano il Paese d’origine un altro 30 per cento di ricercatori stranieri arriva nel Paese che ha prodotto il flusso in uscita, controbilanciando la perdita di capitale umano.
Ci sono Paesi virtuosi, poi, come Svizzera e Danimarca, che ospitano più ricercatori stranieri di quanti, da quella nazione, emigrano all’estero. Infine, resta l’ipotesi sventurata di chi perde ricercatori e non riesce a sostituirli con un numero sufficiente di colleghi stranieri che arrivano al loro posto. L’Italia, anche in questo caso, rappresenta l’eccezione in negativo e, dunque, il cosiddetto fenomeno del brain drain (o fuga di cervelli) viene aggravato dal fatto che non c’è sufficiente brain gain, cioè una leva di validi ricercatori stranieri pronti ad arricchire di vivacità intellettuale le nostre università e i nostri centri di ricerca.
Un tempo si sarebbero levate grida di dolore, mentre qui si alza solo uno spaventoso e polveroso silenzio. La terra si fa arida sotto i piedi delle giovani generazioni italiane e questi dati sono illuminanti: non è per fare il gufo, ma la ricerca di soluzioni deve partire sempre dal riconoscimento di un problema. Che non sta a Houston, ma a Milano, Roma e Napoli. Sembra banale parlare dei giovani, ma il fatto è che i rendimenti degli investimenti in capitale umano sono quelli più fruttuosi e che producono conseguenze di lungo periodo, il che vale anche in negativo, ahimè. Quando tali investimenti mancano, gli impatti sono devastanti e il gap tende a crescere con il tempo.
La prima manovra del governo Meloni, appena licenziata e che vale circa 35 miliardi di euro, dedica giustamente molte risorse al pacchetto energia, ma ne destina soltanto due ai più giovani. Nemmeno il 6 per cento. Perché non usare, tra gli altri, questo come un indicatore di innovazione o di sua mancanza nel coraggio dell’azione di governo? Il 6 per cento per i più giovani è il budget di speranza di questo Paese, trafitto non da un raggio di sole ma dalla spietata aritmetica dell’indifferenza demografica: ci sono più pensionati che lavoratori e l’età media della popolazione è destinata ad aumentare con tutte le conseguenze socio-economiche di declino che stiamo già sperimentando. E sarà davvero subito sera a meno che non osserviamo, per lo meno, un assordante minuto di fracasso.
Lo dobbiamo alla nostra idea di futuro: una politica coraggiosa non può rappresentare gli interessi di una maggioranza inerte di over 60, senza vista sul domani, ma deve intraprendere un percorso di rilancio e di progresso. Per un po’ di vernice lavabile buttata da un gruppetto di attivisti sui palazzi delle istituzioni, lo sdegno è stato massimo: nessuno, tuttavia, ha fatto un plissé sulla promessa di futuro che questo e altri governi hanno scritto, evidentemente, con l’inchiostro simpatico.