Fabio Rampelli commissariato. Giovanni Donzelli elevato. La sorella Arianna che domina sullo sfondo. Con la capa traslocata a Palazzo Chigi, la creatura fondata con Ignazio La Russa e Guido Crosetto resta senza una guida. E comincia a sbandare

Fino a una settimana fa la situazione era abbastanza ordinata, almeno all'apparenza: c'era un candidato, l'ex presidente della Croce Rossa Francesco Rocca, in corsa per il centrodestra alla Regione Lazio. C'era una sorella in ascesa, Arianna Meloni, coordinatrice informale e per lo più telefonica della sua campagna. C'era un partito, Fratelli d'Italia, avviato verso la sua prima competizione elettorale post vittoria politica.

 

Pochi giorni e tutto è cambiato: Rocca ha disertato lunedì 23 senza preavviso il primo confronto tv, la parte politica del suo comitato si è inabissata e il partito si è rivelato, più che una falange, una pentola a pressione. Soprattutto a Roma, dove FdI è da sempre più forte che nel resto d'Italia - prendeva il 20 per cento anche quando a livello nazionale non superava il 4 - e dove dopo un lungo ribollire è infine scoppiata, proprio mentre la premier era in Algeria, la contesa con la componente che fa capo all'ex mentore di Meloni, Fabio Rampelli, per una storia di iniziative di corrente assai simbolica e rivelatrice di un andazzo generale.

 

Come se non bastasse, in mezzo tra l'apparente quiete e l'esplosione della vicenda romana, si è consumata anche la rocambolesca caduta di Giuseppe Valentino, penalista, presidente della Fondazione An cioè di una delle casse di Fratelli d'Italia, candidato laico al Csm indicato da FdI come vicepresidente, ritiratosi il 17 gennaio nel bel mezzo della votazione perché era saltato fuori che era indagato per reato connesso nel processo Gotha, quello contro il direttorio della 'ndrangheta: l'avevano tirato in ballo nel 2021, ma nulla di formale era emerso dai controlli di Fratelli d'Italia, effettuati da Ignazio La Russa in persona. «È specchiatissimo, non facciamo la figura dei peracottari», protestava infatti il presidente del Senato, e presidente dell'Assemblea Nazionale di Fratelli d'Italia, in Transatlantico anche quando Meloni aveva già silurato l'ex sottosegretario.

 

Il caso Rampelli. Il caso Valentino. Il commissariamento dell'unica minoranza di Fdi. La malagestione delle nomine. Gli inciampi della comunicazione. Ed ecco, appena passati i cento giorni di governo, affiorare il tallone d'Achille di una premier e di una leader, Giorgia Meloni, che non si fida di nessuno, se non della famiglia. Che non delega a nessuno, se non singole questioni a pochi fedelissimi, a briglia corta. Basti dire quanto sia difficile per Meloni delegare, anche a livello di comunicazione: allo stato la premier - che a parte quella rituale di fine anno ha dismesso la pratica delle conferenze stampa, l'ultima risale al 22 novembre - non ha un capo ufficio stampa («alla prima imprecisione lo ucciderebbe», sussurrano), la sua storica portavoce Giovanna Ianniello è inquadrata come «coordinatore della comunicazione istituzionale» e il suo responsabile dell'ufficio stampa, già portavoce di Fini, Fabrizio Alfano, formalmente è solo un vice (il capo risulta «non nominato»).

 

La sorella d'Italia decide tutto. E ha messo in piedi, sussurrano in sintesi, una gestione mediorientale del partito, quasi «alla Gheddafi», o anche alla «partito comunista cinese», ora difficile a proseguirsi. Chi comanda a via della Scrofa ora che Giorgia sta a Palazzo Chigi? Questa incertezza ha consumato già qualsiasi ammortizzatore degli ingranaggi del partito. Al punto che tutto è esploso in una reazione spropositata proprio contro l'unica opposizione nel monolite di FdI, quella che fa capo ai gabbiani di Rampelli dove Meloni in origine militò: il commissariamento del coordinatore di Roma, Massimo Milani, accusato sostanzialmente di mescolare il suo ruolo formale con la sua appartenenza di corrente (i gabbiani di Rampelli appunto). Una durezza di reazione, per la vicenda romana, che non ci fu neanche ai tempi di Fanpage e dell'inchiesta sulla Lobby nera: quando la Procura aprì l'inchiesta, di cui ora ha chiesto l'archiviazione, indagando otto persone per un presunto giro di fondi illeciti e riciclaggio, nessuno pensò, per dire, di commissariare la federazione milanese guidata da Stefano Maullo (area Santanché).

 

Tutto nasce da un dato: nel partito di Giorgia Meloni comanda soltanto lei, sempre di più. Anche Roma, via Donzelli «per garantire terzietà». L'ultimo congresso di FdI risale al 2017, le cariche dell'esecutivo non sono state toccate ora che quasi tutti siedono al governo, come si evince anche dal sito del partito, trasformato in un organo di propaganda dell'esecutivo (si consiglia in proposito la sezione: Gazzetta tricolore). Insomma modello Renzi, dice chi ricorda come il Rottamatore amministrò il Pd da Palazzo Chigi.

 

È l'opposto, questo, del modo democristiano di gestire il potere, secondo una suddivisione accurata: se al governo c'è Aldo Moro, al partito c'è Mariano Rumor; se c'è Giulio Andreotti, al partito c'è Arnaldo Forlani. Ecco, invece qui c'è solo Meloni: al governo e al partito. La destra del resto non è avvezza alla problematica. Mai fino ad oggi aveva espresso un presidente del Consiglio, e solo una volta ha dovuto confrontarsi con la compresenza di incarichi di governo e di partito: con Gianfranco Fini, che da leader di An, ministro e vicepremier aveva delegato tante questioni a una specie di direttorio, ai colonnelli, ai capicorrente: Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli, Adolfo Urso. Ecco, nell'era di Giorgia Meloni colonnelli non ve ne sono.

 

Nel partito iper-personalizzato ci sono uomini di fiducia, come il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, l'eurodeputato Carlo Fidanza, il responsabile dell'organizzazione Giovanni Donzelli. E qualche donna, come Chiara Colosimo (anche lei una ex gabbiana, pare che quel disegno tribale che ha sull'anulare sinistro una volta fosse appunto un gabbiano). Personaggi che seguono Meloni sin dai tempi in cui divenne capa dei giovani di An nel 2004, ma che non sono titolari di quote rilevanti di voti.

 

E poi ci sono i parenti. Qui bisogna aprire un capitolo a parte, perché la funzione della parentela è particolare, nel caso Meloni. In questi mesi molto si è capito circa il ruolo di Francesco Lollobrigida, ministro dell'Agricoltura, detto il cognato, ma di fatto anche più che un braccio destro: nel senso che «Lollo» come lo chiamano tutti è davvero un emissario del melonimondo. Fedeltà alla capa, sì, ma anche legame di sangue. Le due cose si mescolano in una maniera mai vista: di norma, infatti, nel campo da gioco della politica italiana il parente è colui che il potente colloca arbitrariamente in un qualche posto quando acquista sufficiente potere per farlo, anche a prescindere dalle sue competenze. Modello Berlusconi. Qui c'è un elemento diverso - peraltro comune in una destra dove spesso si condivide impegno politico, parentele, legami - nel senso che Lollobrigida in effetti ha una competenza politica fatta di quasi trent'anni anni di militanza, spalla a spalla con Giorgia Meloni. Che conobbe quando lei aveva 18 anni e non era nessuno, mentre lui iniziava a uscire con la sorella.

 

È proprio Arianna, «l'altra Meloni» come la chiamò Simone Canettieri nella sua prima intervista, l’elemento da tenere d'occhio nella vicenda di FdI. Dacché Giorgia è entrata a Palazzo Chigi, infatti, Arianna ha visto accrescere il suo potere. Nulla di formale, almeno per ora. Però con la fine del 2022 Arianna ha chiuso il suo ventennio di contratti a termine con la Regione Lazio (non ha mai cercato l'assunzione volendo evitare polemiche, era in ultimo responsabile della segreteria di Chiara Colosimo). Da allora per lei si è ventilato prima l'incarico di responsabile del tesseramento, poi di coordinatrice della campagna di Rocca. Un incarico che in parte svolge, nel consueto guazzabuglio che già si vide un anno fa con le Comunali per Roma, e anzi con una differenza: mentre per Enrico Michetti c'erano fin troppi referenti politici - da Lollobrigida al coordinatore regionale Paolo Trancassini, fino a Rampelli - adesso per impegni o per lesa maestà, nessuno sta seguendo la pratica. L'unica appunto è Arianna, che però agisce con discrezione: al telefono appunto.

 

Fu lei, del resto, già un anno fa a spingere per la candidatura di Michetti, che sentiva a Radio radio. Non è un segreto poi che Arianna faccia politica «sin da ragazza», come ha rivendicato più volte. È tutt'uno con la sorella «i nostri dna sono sovrapponibili, come quelli di due gemelle omozigote», ha raccontato. È la sua prima consigliera e sempre più spesso è proprio lei la terminale di tante informazioni. «Ho parlato con Arianna» è diventato come «parla con Lollobrigida», racconta il Foglio.

 

Per toccare con mano questa simbiosi, basta dare un'occhiata ai profili social di Arianna. Pieni di messaggi politici della sorella, foto della sorella, foto con la sorella, anche qualche capovolta sugli anelli come faceva anche la sorella quando aveva più tempo. Messaggi sulla sorella: «Ti accompagnerò sul monte Fato, sapendo che non è la mia storia che verrà raccontata, ma la tua», scrisse il 24 settembre. È ancora più simbolico il post di fine anno, dove compaiono le due sorelle d'Italia in abito da sera. E gli auguri: «A chi ha creduto, a chi non l'ha fatto ma si sta ricredendo, auguri anche ai rosiconi che non si ricrederanno mai per puntiglio. Auguri ai nostri amici e ai nostri nemici», «sarà un grande anno perché questo è il nostro vero augurio». Con tutti questi «nostro», viene in mente un verso del poeta Kavafis: il mio, il tuo, queste fredde parole tra noi mai pronunciate. Varrà anche per il partito?