L'impianto di Taranto tra un anno avrà un solo altoforno attivo. Fortemente indebitata, il suo futuro è incerto. Per questo il governo potrebbe cedere tutta l’azienda ai al gruppo ArcelorMittal

La voce orwelliana non lascia spazio agli indecisi: «Le persone sceglieranno da che parte stare, con noi o con qualcun altro, dalla parte di chi pensa solo a produrre, o di chi lo fa con rispetto». Mentre i cestelli di due lavatrici girano e girano, il video-propaganda precisa che uno dei due elettrodomestici è fatto con acciaio sostenibile, l’altro no. Poi si passa all’esercitazione muscolare totalitaria per magnificare la capacità di Acciaierie d’Italia, ovvero l’ex Ilva, di navigare verso un futuro, che è già presente, di acciaio sostenibile, green, pulito.

 

Accolti da cotanto manifesto, i 450 clienti internazionali, sopraggiunti lo scorso 28 settembre a bordo di bianchi pulmini per visitare lo stabilimento di Taranto, sono successivamente stati illuminati dalle parole dell’amministratrice delegata, Lucia Morselli: «Sono state fatte evoluzioni importanti nei 1.500 giorni di gestione Arcelor Mittal». L’ad si riferisce alla copertura di parchi minerari e nastri trasportatori, al filtraggio di acqua e fumi nocivi dei camini, come narra il soviet-video-propaganda di AdI. 

 

Dunque, per Lucia Morselli l’ex Ilva va alla grandissima. Fa nulla se l’elenco di migliorie non è nient’altro che un pezzo degli obblighi aziendali verso l’Aia, Autorizzazione Integrata Ambientale, ovvero il piano di riduzione dell’impatto ambientale, che non è stato concluso nei tempi previsti. Sarebbe anche il caso di mettersi d’accordo sulla definizione di acciaio green: perché Adi segue l’antico metodo del carbon fossile, trasformato in carbon coke nelle inquinanti cockerie, per poi essere mischiato a minerale di ferro – che rilascia diossine – successivamente caricato negli altiforni per farne ghisa fusa, da raffreddare nei convertitori con un flusso di ossigeno puro che, a sua volta, produce residui e scorie tutt'altro che sostenibili. Per carità, tutte le acciaierie a ciclo integrale inquinano: e infatti in Occidente è partita una corsa al sacro graal della tecnologia in grado di produrre acciaio a basso impatto, oggi più che mai visto che Usa e Europa hanno riscoperto l’importanza di avere in casa propria la materia prima, dai chip, all’acciaio per ridurre la dipendenza asiatica.

 

Per fortuna che l’Italia ha in casa propria, a Taranto, la più grande acciaieria d’Europa, un gioiellino all’avanguardia, stando alle parole dell’ad Morselli, un insostenibile buco nero di fondi pubblici, stando alle parole del presidente della stessa acciaieria, Franco Bernabè, che in contemporanea all’evento commerciale lanciava l’ennesimo appello: «Le acciaierie non possono finanziarsi, non possono acquistare materie prime, sussiste una forte sofferenza per i bassi livelli produttivi. Urgono risorse». La magnifica acciaieria è di nuovo al verde, nonostante il miliardo sganciato dallo Stato, servito a colmare una piccola parte dei debiti commerciali della società. L’ultimo bilancio dice che i debiti commerciali viaggiavano a quota due miliardi, per lo più nei confronti di società del gruppo ArcelorMittal (che detiene la maggioranza di Adi e la gestisce in toto): un’interdipendenza che si è approfondita nel 2023, tanto che, secondo fonti di palazzo, i debiti commerciali sarebbero saliti a 2,5 miliardi. Una cifra monstre, che continua a crescere nonostante le iniezioni di liquidità del governo, perché l’azienda è lontanissima da quei volumi produttivi che consentirebbero un pareggio di bilancio, ovvero sei milioni di tonnellate l’anno. Da quando ArcelorMittal ha messo piede a Taranto la produzione è andata via via scemando, fino ai 3,2 milioni di acciaio spedito nel 2022 e una previsione inferiore a tre milioni per quest’anno. Tutto questo mentre i franco-indiani di ArcelorMittal registrano fatturati e utili record.

 

Al contrario, i lavoratori di Adi, che sciopereranno il 20 ottobre, sono in cassa integrazione, mentre l’acciaieria ha i giorni contati. Come spiega Rocco Palombella, segretario della Uilm ed ex dipendente di Ilva: «Al momento sono in esercizio gli altiforni 1, 2 e 4. L’Afo 3 è stato demolito, il 5 è a fine vita. L’1 e il 2 possono restare in funzione sino alla fine del 2024, poi è necessario fermarli e riqualificarli. Quindi, fra dodici mesi resterà attivo solo l’Afo 4. Significa che a breve Adi viaggerà con un solo altoforno, considerato che per ricostruire l’Afo 5 e i due forni elettrici previsti dall’accordo per la decarbonizzazione servono due anni, e non siamo neppure alle battute iniziali del progetto. La produzione, allora, scenderà a 1,7 milioni di tonnellate, rendendo insostenibile ogni rilancio». Ancora più insostenibile dal 2026, quando i certificati verdi previsti dall’Unione Europea diventeranno più onerosi, nel tentativo di spingere le aziende verso la decarbonizzazione. Se l’ex Ilva non punterà speditamente verso una produzione di acciaio green, dovrà sborsare 400 milioni di euro in certificazioni ogni 2 milioni di tonnellate di acciaio. Nel frattempo il miliardo di euro stanziato nel Pnrr per la produzione di idrogeno e per forni elettrici utili alla decarbonizzazione è stato stoppato (e i fondi del Pnrr destinati altrove) perché il socio ArcelorMittal intende realizzare in proprio l’impianto, sfruttando però risorse pubbliche italiane.

 

I problemi sul tavolo sono così tanti che nell’incontro di coordinamento a Palazzo Chigi non si è escluso di percorrere la strada di una procedura di liquidazione, vista anche la gigantesca esposizione debitoria verso i fornitori – pugliesi, lombardi e veneti – che, a causa di fatture non saldate per svariati milioni di euro, a loro volta rischiano di dover presentare i libri in tribunale, creando una strage di piccole e medie aziende italiane. Il governo ha dichiarato di voler rinegoziare i termini dell’accordo con Arcelor, ma i sentieri percorribili sono impervi. Impraticabile il percorso imboccato dal ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, ovvero la nazionalizzazione: perché vorrebbe dire mettere sul piatto i 2,5 miliardi per coprire i crediti commerciali e altre notevoli risorse per sciogliere l’accordo con Arcelor. Altrettanto complicato, ma non impossibile, il sentiero indicato da Raffaele Fitto, ministro per gli Affari Europei, che propende per la privatizzazione, ovvero la cessione totale dell’acciaieria ad Arcelor. Soluzione che, per altro, consentirebbe di allentare la tensione con i francesi. Perché? Nel petto di ArcelorMittal batte un cuore francese e la Francia, da sempre attenta alla difesa del proprio patrimonio industriale, non accetterebbe un altro sgambetto da parte del governo Meloni, che già si è messo di traverso nella cessione ai francesi di Ita Airways e di Mps, per non parlare del riassetto Tim. Lasciare l’ex Ilva nelle mani di Arcelor potrebbe, indirettamente, favorire una morbida reazione di Bruxelles alla manovra finanziaria italiana in deficit. Però, sul lungo periodo, questa scelta si tradurrà in un boomerang per l’industria italiana, che si ritroverebbe con poco più di un polo commerciale a Taranto, mentre la produzione  verrebbe concentrata negli impianti francesi, spagnoli, belga e canadesi di ArcelorMittal, dove quest’ultima sta investendo nella produzione di acciaio green da forno elettrico.

 

L’unica seria alternativa sarebbe ripartire da capo, come nel gioco dell’oca, avviando un’amministrazione straordinaria, che tuttavia deve essere richiesta dall’azienda (che non ha alcuna intenzione di farlo), o dai fornitori, che a quel punto potrebbero rivedere solo una piccolissima percentuale dei loro crediti, o dalla Procura della Repubblica all’interno di un’indagine sul dissesto. Quindi, anche questa strada non sembra percorribile. Se ne sono resi conto anche i molti acciaieri del Nord, da Arvedi a Marcegaglia che, non avendo per nulla chiara la situazione debitoria di Adi, non puntano più su un investimento a Taranto, bensì sulla cannibalizzare delle quote di mercato dell’ex Ilva. Puntano a diventare essi stessi produttori di acciaio primario, investendo su forni elettrici di ultima generazione, capaci di produrre acciaio partendo dal biocarbone, un materiale generato da legname a fine vita e fanghi, che fatto reagire con il minerale di ferro in un forno elettrico preriduttore, produce acciaio primario, a basso impatto ambientale.

 

La tecnologia è di proprietà di I-Smelt, società di Carlo Mapelli, professore di Ingegneria dei Materiali al Politecnico di Milano, in passato nel consiglio di amministrazione dell’ex Ilva, il cui ruolo era quello di portare a Taranto la tecnologia green. Un primo esemplare di forno elettrico I-Smelt è attivo nell’acciaieria di Sovere (Bg), dove si sono recati Marcegaglia, Zanardi, Acciaierie Venete, Arvedi, Feralpi, ma anche Valsabbia e Tamburi, e a breve sarà la volta di tre multinazionali americane, tutti interessati al progetto per realizzare impianti a impatto zero entro la prima metà del 2024. Assente l’ex Ilva. Per il suo futuro, invece, l’unico serio interessamento è stato avanzato dal magnate ucraino Rinat Akhmetov, patron di Metinvest, che controllava l’Azovstal di Mariupol, distrutta dai russi nel corso del conflitto. Akhmetov è in cerca di una sede per produrre l’acciaio utile a ricostruire l’Ucraina e avrebbe volentieri investito nell’ex Ilva, ma la difficile partita con i francesi di ArcelorMittal avrebbe spinto il governo a proporre ad Akhmetov di puntare invece su Piombino, altro fronte aperto e caldissimo per la siderurgia italiana.