Ormai siamo diventati indifferenti di fronte alle guerre e alle stragi di migranti. Dimentichiamo e rimuoviamo tutto in fretta. Invece dovremmo ricordare. Per imparare a reagire

Un anno fa, il 13 ottobre 2022, iniziava la XIX legislatura: dodici mesi dopo, siamo impietriti davanti a una nuova guerra e ascoltiamo le grida d’aiuto, guardiamo il fumo delle esplosioni, litighiamo sui social, togliendo dalle amicizie chi non è d’accordo con noi. Dimenticheremo anche questo?

 

Per rispondere, serve un passo indietro fino al 1980: è l’anno in cui Walter Tevis (l’autore de “La regina degli scacchi” e de “L’uomo che cadde sulla terra”) scrive il romanzo distopico “Mockingbird”, tradotto come “Solo il mimo canta al limitare del bosco”. Come spesso avviene, le distopie hanno la misteriosa capacità di anticipare il futuro e di farci scoprire che nel 2467 la specie umana è quasi decimata, anche per l’azione di un intelligentissimo robot, Spofforth, che l’ha anestetizzata con sciocchezze e droghe. Dunque, gli umani sono diventati apatici, non hanno coscienza del tempo che passa, non sanno più leggere e scrivere, non hanno relazioni con gli altri.

 

Non so se ci sia uno Spofforth in circolazione, né so se fra dieci giorni o un mese faremo spallucce davanti a quel che avviene in Israele e in Palestina: alcuni avvenimenti degli ultimi giorni sembrano però confermare che abbiamo messo in pratica alcuni dei presagi di Tevis. La guerra in Ucraina è già faccenda per volenterosi e giornalisti. Per non parlare delle grandi stragi del Mediterraneo: il 3 ottobre scorso, per esempio, il decennale dei 368 su cui si sono chiuse le onde di Lampedusa ha avuto solo qualche bagliore di attenzione e neanche un rappresentante del governo, sia pure come presenza di facciata, durante la commemorazione.

 

È difficile, si dirà. Secondo il metodo Spofforth, siamo sottoposti a troppi stimoli quotidiani e non possiamo reagire a tutto. È così vero che non stupisce neanche l’indifferenza dei più con cui è stato accolto un intervento papale che riserva molte sorprese. È l’esortazione apostolica del 4 ottobre “Laudate Deum” sulla crisi climatica, dove papa Francesco riesce a citare Donna Haraway, a stigmatizzare la mancanza di autorevolezza dell’Onu, a spendersi in favore di Ultima Generazione e dei «gruppi radicalizzati» («essi occupano un vuoto della società») e a dare un colpo magistrale al culto della meritocrazia.

 

«Si incrementano idee sbagliate sulla cosiddetta “meritocrazia”, che è diventata un “meritato” potere umano a cui tutto deve essere sottoposto, un dominio di coloro che sono nati con migliori condizioni di sviluppo. Un conto è un sano approccio al valore dell’impegno, alla crescita delle proprie capacità e a un lodevole spirito di iniziativa, ma se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità, la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere». Reazioni? Nessuna. Neanche un corsivo di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola (forse perché papa Francesco a Barbiana, dal don Milani maestro, c’è stato e non in gita).

 

La cosa preziosa della settimana, dunque, è un reportage: lo ha scritto il premio Pulitzer Matthieu Aikins che, in “Chi è nudo non teme l’acqua” (Iperborea), racconta come ha gettato il passaporto e ha seguito un migrante afgano nella rotta verso il Mediterraneo. Perché solo mettendosi concretamente nei panni degli altri si comprende davvero cosa sta e ci sta accadendo. Forse.