Periferie urbane
Dieci, cento, mille storie di cemento, rovine e altri stupori
C’è una stretta relazione tra luoghi fatiscenti e degrado sociale e morale. Per cogliere le opportunità di futuro occorre ritrovare il senso della cura. Che trasforma l’abbandono in riscatto e bellezza
Jacques Austerlitz, protagonista del romanzo di Winfried Sebald, nel suo vagabondare mesto per l’Europa rifletteva sulla natura dei grandi edifici che sembrano gettare in anticipo l’ombra della loro distruzione. Quando si guarda un cantiere di un’opera in costruzione, s’intravede la rovina che quell’opera sarà un domani: con quella perfetta circolarità per cui l’inizio e la fine trovano sempre un punto di contatto; con quel senso elegiaco che sta lì a dire della fragilità e della finitezza del mondo, ma soprattutto della nostra. C’è una differenza sostanziale, però: quando andiamo in un cantiere siamo pervasi dalla forza di un inizio, una promessa che punta al futuro. Quando ci troviamo in mezzo alle rovine, invece, ci rendiamo conto che l’ordine strutturale ha fallito, il sistema valoriale che aveva motivato il progetto è andato perduto. Se si guardano le foto di edifici abbandonati scattate dall’olandese Roman Robroek, se ne resta affascinati: c’è qualcosa di tragico e bellissimo insieme, ma questo perché le rovine sono trasformate dall’occhio dell’artista in un oggetto estetico. Quando una casa, una fabbrica, un centro sportivo abbandonati incombono sulla nostra quotidianità invece come intervengono nella narrazione di una comunità?
Le violenze sessuali ai danni di due ragazzine di Caivano sono avvenute in un centro sportivo che versa in uno stato di abbandono tale da sembrare un edificio in zona di guerra. La diciannovenne stuprata a Palermo da sette ragazzi era stata portata in un cantiere abbandonato nei pressi del Foro Italico. A Latina, una sedicenne è stata violentata a maggio in una fabbrica in rovina. I luoghi degradati sono il correlativo oggettivo di un degrado sociale e morale; o meglio, spogliati delle loro funzioni architettoniche, irradiano la forza del simbolo, contribuiscono a influenzare le azioni di chi vive lì vicino. È in un contesto di abbandono e di degrado che Stavrogin, il personaggio principale dei “Demoni” di Dostoevskij, violenta una bambina, la povera Matrëša, che – morta suicida – si trasforma nel tormento della sua anima. È sempre in un contesto di degrado che Raskol’nikov in “Delitto e castigo” si trasforma nell’assassino dell’anziana usuraia.
Nel 2019 è stato presentato in Italia il documentario girato da Chad Friedrichs su Pruitt-Igoe, il quartiere di case popolari alle porte di Saint Louis. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i 33 edifici orizzontali firmati dal giovane Minoru Yamasaki (lo stesso architetto delle Torri Gemelle), con gli appartamenti a grandi vetrate, i parchi e un sistema di servizi pubblici, ambivano a trasformarsi in un insediamento modello per circa dodicimila persone. Ma nel tempo qualcosa non ha funzionato, sono mancati i finanziamenti adeguati alla manutenzione. Pruitt-Igoe, trasformatosi in un ghetto solo per persone afroamericane, abbandonato a sé stesso, con i suoi vetri infranti, l’intonaco scrostato, gli ascensori inagibili è diventato presto il luogo dell’illegalità, dove spacciatori, ladri e affiliati a bande di strada vagavano indisturbati. Pruitt-Igoe si ergeva come simbolo dell’anarchia, ma anche dell’ingiustizia sociale e di quella rabbia che molti anni dopo ha nutrito le proteste del movimento #BlackLivesMatter. Demolire Pruitt-Igoe era diventato necessario, era una vergogna di cui la società voleva liberarsi. Il primo grattacielo fu abbattuto il 15 luglio 1972.
«A giugno morì Emilia Mena Mena. Il suo corpo fu ritrovato nella discarica clandestina nei pressi di calle Yucatecos, verso la fabbrica di mattoni Hermanos Corinto». Così si legge nella “Parte dei delitti”, la corposa porzione del capolavoro di Roberto Bolaño, “2666”, in cui si susseguono ossessivamente per trecento pagine le descrizioni dei femminicidi avvenuti nel Nord del Messico. Una danza macabra costruita a partire da report polizieschi e medico-legali che fa irrompere la ripetitività del Male. Le donne uccise, violentate, torturate, vengono ritrovate tutte in luoghi abbandonati, nei pressi di catapecchie, nelle discariche, in fabbriche lontane da tutto, oppure nel deserto. È in un appartamento devastato che vivono e si drogano i protagonisti di “Trainspotting”. E ancora, è in una baracca che vengono uccise la figlia e la moglie del protagonista di “Animali notturni”, il film di Tom Ford dal libro di Austin Wright Tony e Susan. Anzi, no. Non si vede mai cos’è successo alla due donne, e questo ci toglie il fiato; ma come il protagonista abbiamo la certezza che il tutto è avvenuto in un luogo degradato, perché è ai luoghi negletti che associamo la narrazione del male.
«La natura dell’abbandono è innanzitutto negli occhi di chi guarda certi luoghi. Se noi non li vediamo o li vediamo solo come luoghi oscuri, questo deriva dalla nostra incapacità di essere progettanti rispetto a quei luoghi, di vedere in loro una fiducia che rappresenta futuro», dice il critico e teorico dell’architettura Luca Molinari. C’è un principio di rimozione che aumenta il loro essere abbandonati. L’autrice scozzese Cal Flyn è un’esperta di luoghi abbandonati. Nel suo “Isole dell’abbandono” (Atlantide) racconta di un’esplorazione a Paterson, ex città industriale americana, al centro del poema di William Carlos Williams, e ora luogo di fabbriche tessili e di mulini abbandonati, diventati oggetto di riappropriazione. Addentrandosi nel ventre di un mulino dismesso, Flyn non trova l’orrore, ma una comunità. Si tratta di persone che non vogliono essere trovate, attratte dall’idea di una libertà che non troverebbero da nessun’altra parte, una libertà anarchica.
Un luogo che rimane nella vita delle persone e viene visto e interpretato come patrimonio condiviso alimenta il senso di comunità. «L’architettura sopravvive alle sue funzioni ma non può mai perdere la sua capacità di essere accogliente, generosa, urbana e aperta al futuro», scrive Luca Molinari nel suo “La meraviglia è di tutti” (Einaudi). Per questo, con un movimento inverso, c’è sempre la possibilità di riappropriarsi e rinarrare gli ambienti dimenticati in modo comunitario. Come fa il collettivo londinese Assamble, che si occupa di rigenerazione partecipata e che ha creato un laboratorio di ceramica in una fabbrica abbandonata, trasformandola così in un centro civico. Oppure, sempre come racconta Molinari, c’è l’esempio di Scampia. «Una popolazione che si sente abbandonata dalle istituzioni è una popolazione che tende a fare per sé». Qualcosa, però, è cambiato con la costruzione della nuova metropolitana di Napoli che ha portato l’arte contemporanea in tutte le stazioni, anche nei quartieri più periferici. «La cosa impressionante è che quelle stazioni dopo molti anni sono ancora perfette come se fossero state appena inaugurate. Questo vuol dire che quando tu dimostri cura per le comunità e i loro territori, le comunità ti ripagano. La stazione di Scampia era uno scheletro degradato. Averlo trasformato in un luogo di bellezza e qualità architettonica è come dichiarare che quel luogo è importante». Tutto questo ha inciso sull’orgoglio della comunità. «La bellezza cura, perché è dimostrazione di attenzione». La bellezza è di tutti.