Il funzionamento della tecnologia sofisticata ci sfugge del tutto. Così siamo costretti a fidarci di chi la produce. Mentre bisognerebbe sviluppare un sapere critico, lavorando sull'alfabetizzazione e introducendo nelle aule le storie di chi ha lottato in questa direzione

La nostra epoca va caratterizzata come l’era della conoscenza. La conoscenza è strettamente legata all’intelligenza, ma non ne è un sinonimo. L’intelligenza, infatti, è etimologicamente comprensione, sicché uno potrebbe considerare impossibile conoscere ciò che non si comprende. Scienza, conoscenza, intelligenza e comprensione tuttavia, di fronte alla complessità del reale, hanno via via sviluppato fra loro relazioni sfumate e cangianti, generando fenomeni sociali, come la tecnologia, di fronte ai quali lo iato fra conoscere e comprendere diviene abissale. Per millenni gli umani hanno conosciuto il fuoco senza comprenderlo, e ciò risulta vero oggi per la stragrande maggioranza degli automobilisti, di coloro che ascoltano la radio, guardano la tv o utilizzano un cellulare. Per il non specialista, infatti, la tecnologia è sempre una sorta di magia, che genera sorpresa e meraviglia. A fine Ottocento sentire la voce di una persona lontana in una cornetta. Oggi vedere sullo smart phone l’immagine del nipotino che ti sorride da New York.

 

Il “capitalismo cognitivo”, la migliore e più asettica definizione della nostra epoca, si è sviluppato con internet come sua infrastruttura portante, proprio come la prima modernità non poteva svilupparsi senza il nuovo mondo conquistato dagli Europei. Esso costituisce una trasformazione a trazione statunitense che utilizza la locuzione “smart” per caratterizzarsi. Anche qui smart e intelligente non sono perfettamente sinonimi, perché il primo prescinde totalmente dall’idea di comprendere. Smart è colui che sa risolvere un problema nel modo più rapido e efficiente possibile, ha una connotazione pratica che prescinde dalla comprensione profonda, ma riguarda la capacità di utilizzare la tecnologia (es. smart city). I nativi digitali, molto smart col cellulare, non hanno alcuna idea del suo reale funzionamento. (A questo proposito merita la lettura di Juan Carlos De Martin, “Contro lo Smart Phone”).

 

Un processo simile di adattamento del significato delle parole alle circostanze tecnologiche, che tende a generare uno slittamento di senso permanente, sta avvenendo con la locuzione intelligence nell’acronimo A.I. A prescindere dal legame storico con spionaggio (Central Intelligence Agency), qui il senso non ha nulla a che fare con la comprensione, che è una esperienza umana, ma ha tutto a che fare con la rapidità prodigiosa in cui la macchina impara ad aggregare dati. Insomma, si veicola l’idea per cui si può essere non solo smart, ma anche intelligenti senza comprendere, cioè conoscendo in modo del tutto superficiale.

 

Ovviamente, la conoscenza superficiale, proprio come il multitasking che genera disattenzione, ci rende del tutto vulnerabili ad artifici e raggiri volti a carpire la nostra buona fede, problema che riporta paradossalmente in auge il più antiscientifico fra i principi di conoscenza, ossia l’antico ipse dixit. Lo ha detto l’esperto certificato e dunque è vero! Le opinioni e spiegazioni difformi rispetto all’ipse dixit altro non possono essere che fake news. Ciò necessariamente rafforza anche sul piano etico un mainstream di riferimento e genera credulità popolare che si presta ad ogni abuso. Per esempio, quando furono messi in circolazione i “Btp Futura” nel 2021, con grande pompa patriottica, chiedendo agli italiani di partecipare alla ripresa post-covid, con un investimento sicuro minimo di otto anni, nessuno ha fatto comprendere il senso della presenza delle clausole c.d. di “azione collettiva”, inventate nel 2013, che consentono la ristrutturazione del debito, generando un grave rischio. Oggi, chi volesse uscire dalla trappola può liquidare circa 60 ogni 100, ossia avrebbe già perso, ignaro, oltre il 40% del suo investimento patriottico di lunga durata. Del resto, chi investe in risparmio gestito (comprando polizze assicurative o fondi di investimento offertigli dalla sua banca) non comprende la struttura delle commissioni, che sono talmente consistenti da mangiarsi strutturalmente ogni ritorno. Se si acquistasse direttamente il sottostante (ossia le azioni, le obbligazioni o i titoli di Stato) che invece lascia acquistare dal gestore del fondo che la banca colloca, si risparmierebbero migliaia di euro e si potrebbe pure evitare di dare soldi senza saperlo a chi produce armi.

 

Lo slittamento di senso verso un ipse dixit tecnocratico ci porta a fidarci degli attori mainstream, credendo alla loro pubblicità. Ma questa credulità ha un costo politico. Per esempio, oggi le banche fanno ben più della metà dei profitti in commissioni a rischio zero, cosa che le disincentiva a imprestare i soldi essenziali per l’economia reale del Paese. Disintermediando i propri risparmi i cittadini servirebbero il bene comune non solo il proprio interesse!

 

In una parola, nella società dell’intelligenza, l’ignoranza genera povertà personale e collettiva. La sola soluzione è dunque investire in conoscenza come bene comune, ossia una intelligenza critica, trasparente, condivisa disinteressata e davvero accessibile. È questa la ragione per cui occorre partire dalle scuole. Ed è sacrosanto avanzare serie perplessità a che la multinazionale Pfizer, ben nota per la sua spregiudicatezza, finanzi un programma di lotta alle fake news nelle scuole italiane proponendo «alfabetizzazione medico-scientifica per studenti e professori». Occorrerebbe piuttosto sviluppare una alfabetizzazione di base in materia civica, politica, ecologica e finanziaria, insegnando ai ragazzi il coraggio della verità, e introducendoli ad eroi eponimi di queste battaglie come Aaron Shwartz e Julian Assange.