Come già fatto in passato, gli operai si rifiutano di caricare le navi con gli armamenti. «È solo il primo passo di un percorso a sostegno del popolo palestinese»

«Fermare il massacro del popolo palestinese, fermare il traffico di armi». Ecco cosa vorrebbero i lavoratori del porto di Genova che da parecchi anni cercano di accendere un faro sul transito e la spedizione di armi dai porti civili italiani. Che la legge n° 185 del 1990 vieterebbe verso i paesi in stato di conflitto armato. O verso Stati la cui politica contrasta con i principi dell’articolo 11 della nostra Costituzione: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

 

«Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

 

Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».

 

Così i camalli di Genova, con l’appoggio dei sindacati Usb e SiCobas e di molte associazioni e movimenti umanitari e antimilitaristi, nella mattina di venerdì 10 novembre, hanno deciso di bloccare il varco di San Benigno, uno dei principali accessi al porto: «Con i nostri corpi. Perché si trova a poche centinaia di metri dalla compagnia marittima Zim, di bandiera israeliana, che pochi giorni fa ha siglato un accordo per offrire le proprie infrastrutture logistiche a Tel Aviv e per trasportare il necessario per i bombardamenti a Gaza. Dall’app “Traffic Marine" ci rendiamo conto di quanto si siano intensificati i traffici tra Usa e Israele ».

 

Nivoi spiega che questo è solo uno dei primi passi di un percorso che i portuali intendono strutturare a sostegno del popolo palestinese: «Abbiamo fatto anche un comunicato internazionale in cui chiediamo ai lavoratori di tutto il settore trasporti, quindi non solo porti ma anche ferrovie e aeroporti, delle città del Mediterraneo di cominciare una serie di mobilitazioni per contrastare in modo più ampio il traffico di armi». Anche in altre città del mondo, infatti, ci sono lavoratori che si stanno rifiutando di caricare i mezzi con le armi per Israele: da quelli del porto di Sidney, di Barcellona, di Tacoma nello stato di Washington, negli Usa, agli addetti aeroportuali in Belgio.