Una maternità collettiva. Un ragazzo disabile. La regista palermitana racconta “Misericordia” ispirato a una vicenda personale. Senza dimenticare il teatro che «è sempre politico, se no è intrattenimento»

Come ogni cosa che la riguardi, anche il suo nuovo film nasce da uno spettacolo teatrale. Si chiama “Misericordia” il nuovo film della drammaturga Emma Dante, presentato alla Festa del Cinema di Roma e dal 16 novembre al cinema. Tratto dall’omonimo spettacolo di successo che ha fatto il giro del mondo, è stato trasposto sul grande schermo per «dargli una collocazione spazio-temporale ed emotiva nuova, con più luce», racconta la regista a L’Espresso. Ma anche per la necessità di raccontare la comunità che si muove attorno al protagonista Arturo, un ragazzo disabile cresciuto da due madri ai margini della società.

 

Non è la prima volta che racconta il mondo degli emarginati, non sarà l’ultima: la ragione?
«Non mi interessa raccontare i salotti dell’alta borghesia, che non conosco e mi annoierebbero a morte. Preferisco stare sulla strada, tutta la mia carriera di drammaturga l’ho fatta nella strada. La famiglia è sempre un tema centrale nella mia drammaturgia perché è lì che si sviluppano identità e personalità di un individuo. E se parlassimo di famiglie libere di scegliersi sarebbe ancora meglio»

 

In “Misericordia” racconta una maternità collettiva, non biologica e condivisa.
«Una maternità a tutti gli effetti: le due donne che si occupano di Arturo sono madri, ma sono al contempo anche padri, fratelli, sono tutto per lui. Un gineceo pieno di generi e ruoli diversi, anche Arturo non è uomo né donna, né adulto, né bambino, è un ibrido. Una creatura, come tutte le creature che vivono ai margini».

 

Perché farne un film?
«Mi sono chiesta: “Dove vive questa famiglia?”, “Dov’è lui con le sue madri”? Lo spettacolo non poteva rispondere, c’era solo un palco vuoto con quattro sedie e un po’ di immondizia. Poi volevo trovare un posto alla comunità, ai bambini, alle donne e agli animali che circondano Arturo».

 

 

Ha aperto il film con una scena di violenza su una donna, una scelta forte.
«Volevo fosse chiaro il messaggio del film: ricordarci che ogni 24 ore c’è un femminicidio in Italia. Continua a essere un problema serio da affrontare, figlio di una cultura patriarcale radicata da secoli. Questo ragazzo disabile, protagonista del mio film, nasce dai pugni di un uomo e dalla morte di sua madre».

 

Come mai lo ha dedicato a suo figlio Dimitri?
«È un film molto personale, mi imbarazza perché lo sento tanto mio. Sento mia la maternità di un figlio che non ho partorito io, ma che è mio figlio a tutti gli effetti. C’è dentro la sua difficoltà nell’essere stato abbandonato e non so che altro i primi anni della sua vita: questo film è la mia storia d’amore con mio figlio. La canzone “Avrai” che Claudio Baglioni ci ha concesso nell’edizione dell’82 è la canzone mia e di Dimitri – che oggi ha 11 anni, è arrivato in Italia dalla Russia che ne aveva tre e mezzo».

 

Ha capito perché lo spettacolo da cui è tratto il film è stato così amato?
«Simone Zambelli, che intrepreta Arturo, è un danzatore straordinario. Il suo Pinocchio di legno ha conquistato il pubblico che si prende subito a cuore questo ragazzo con ritardi cognitivi e psicomotori. È malato, ma la sua malattia è una danza, porta il pubblico a liberarsi del pensiero del deficit fisico e mentale, ad accettarlo con leggerezza e vitalità. Perché la danza libera i corpi».

 

Qual è lo stato di salute del teatro in Italia?
«I teatri che resistono e riescono a rimanere aperti – perché li chiudono tutti – sono sempre pieni, io vivo nei sold out, ma anche Nanni Moretti con il suo spettacolo. Il pubblico vuole essere presente nel qui e ora. Anche i cinema dovrebbero essere pieni, ma le piattaforme sostituiscono la visione in sala. Ma una finestra sul mondo non può diventare il buco della serratura».

 

Da dove viene il nuovo oggi, a livello teatrale?
«Da Francia, Grecia, America, ma anche l’Italia propone cose importanti e innovative. Potrei fare i nomi di Romeo Castellucci, o del corografo greco Dīmītrīs Papaïōannou, ma ci tengo a segnalare le donne: Deborah Warner, Sasha Waltz, Marina Abramovic che è pazzesca. In Italia penso a Licia Lanera, Lucia Calamaro, Veronica Cruciani, Daria Deflorian».

 

Esiste ancora un teatro civile?
«Per me il teatro è sempre civile e politico, se no è intrattenimento. Anzi, c’è più teatro civile che cinema civile».

 

A proposito di teatro civile, sta preparando uno spettacolo sull’apologia del potere ottuso.
«Debutta al Piccolo di Milano l’8 marzo, chiude la trilogia delle fiabe di Basile e racconta la storia di un re disabile perché gli è entrata una gallina nel sedere».

 

Lei è una delle registe pioniere, quando ancora le donne avevano poco accesso a questa professione. Trova ci siano effettivi miglioramenti al riguardo oggi?
«Tutti questi grandi cambiamenti a favore delle donne io non li vedo. Ci sono quelli piccoli, ma sono troppo piccoli rispetto a quello che si dovrebbe fare. Alle donne non danno mai budget alti. Forse temono che li spendiamo male».