Il “pallone gonfiato” di Harri. I vestiti in sete preziose di Capucci. Gli outfit samurai di Yamamoto. Avanza un’avanguardia artistica che non crea solo indumenti. Ma disegna mondi

In una Londra anche leggermente sottotono, non è difficile imbattersi in mise piuttosto esagerate ed eccentriche. Quelle di Harri per esempio, che non è il figlio ribelle del re, ma un giovane designer indiano naturalizzato britannico, il quale ha estratto il lattice dalle piantagioni di famiglia per realizzare le sue creazioni. Forse ricorderete agli scorsi Brit Awards, l’abito “pallone gonfiato” – si fa per dire – indossato dal celebre cantautore Sam Smith, «dinamico, aggressivo, urtante, volitivo, violento, volante, agilizzante, gioioso, illuminante, fosforescente».

 

Parole perfette per una nuova avanguardia artistica che in realtà furono scritte nel 1914 da Giacomo Balla nel Manifesto per la moda futurista. Già allora si sentiva il bisogno di liberare il guardaroba maschile da colori grigi e avvilenti nel tentativo di innovare e rinnovare. Il celebre abito antineutrale era talmente moderno da essere dotato di avveniristici bottoni pneumatici per modificarne la fattura e soprattutto doveva trasmettere un’immagine volitiva e aggressiva «tesa a moltiplicare il coraggio dei forti e sconvolgere la sensibilità dei vili». Non soltanto una provocazione sociale ma un’armatura da guerra nel periodo in cui come scriveva Elda Norchi, alias Futurluce, le donne bambole stavano cedendo il passo alle donne-operaie, tranviere, spazzine, infermiere, contadine e via dicendo per le quali venivano confezionati vestiti alla garçonne. In un certo senso si può considerare come un primo timido e inconsapevole passo verso la moda unisex, la dimostrazione che le donne, eroine della quotidianità, non sono il sesso debole, ma la nervatura forte e concreta della società.

 

Non è un caso che un cantautore come Sam Smith, il quale da anni denuncia disturbi alimentari e ossessivi compulsivi, decida di travestirsi da supereroe dei fumetti, nascondendo il corpo all’interno di un costume gonfiabile dalle proporzioni smisurate. Supereroe o uomo delle stelle che vorrebbe incontrarci ma che ha paura di sconvolgerci. Smith in un video esce dalla maschera e si mette a nudo di fronte al suo pubblico, riprendendo senza dubbio un iconico David Bowie che in uno dei suoi concerti planetari negli anni ’70 si spoglia di un abito spettacolare, in bilico tra urban metropolitano e samurai, disegnato dal designer giapponese Kansai Yamamoto. E compie un piccolo miracolo.

 

L’uomo delle stelle è contemporaneamente un guerriero del teatro Kabuki e un ballerino meccanico della Triade di Oskar Schlemmer. Da una parte, come vorrebbe la scuola della Bauhaus è un corpo meccanizzato che ripete movimenti identici e perfetti, dall’altra un’anima sofferente che con il gesto plateale dell’hikinuki si libera dalla sua apparente identità per mostrare l’essenza della sua anima. Quanto di più drammatico si possa rappresentare, un’interpretazione magistrale che lo ha definitivamente consacrato come uno dei più memorabili e straordinari artisti di tutti i tempi.

 

Ecco che quindi l’abito, sproporzionato, ingombrante, metafisico, assume una simbologia e una forza narrativa non convenzionali e pone ora come allora, il focus sull’importanza del progetto al di là della fattura. «L’uomo non ricorda nulla ma ricostruisce di continuo», diceva Lucien Fevbre, storico e critico francese, tra i primi assieme a Marc Bloch ad approcciarsi all’idea di moda come espressione di un determinato periodo storico e come tale oggetto di indagine critica e non solo di mera descrizione.

 

Roberto Capucci

 

In quest’ordine di idee, la moda non è soltanto quello che appare ma ciò che esprime e la sensazione che suscita in chiunque si soffermi a guardarla. Era dunque corretta l’equazione di Elsa Schiaparelli tra moda e arte, difficile e fuggevole ma comunque arte; al contrario della sua rivale Coco Chanel, per la quale la moda rappresentava più semplicemente un delizioso modo di coprire il corpo nella maniera più pratica e donante possibile, nonostante avesse innovato i paradigmi sociali introducendo pantaloni e gonne corte.

 

Ma se moda è arte, non si può non citare il genio incontrastato di Roberto Capucci che degli abiti ha fatto dei capolavori. Debutta sia pur in maniera ufficiosa per via della sua giovane età, nel 1951 nella sala bianca di Palazzo Pitti. Sta per andare in scena la prima sfilata collettiva dei grandi nomi della moda italiana, Capucci ha potuto soltanto vestire la moglie e le figlie del Marchese Giorgini, visionario creatore della moda italiana per come la conosciamo oggi. “Fu una bomba” e l’inizio di una carriera straordinaria e inarrestabile.

 

Le architetture seriche di Roberto Capucci, contenitori di vita, erano destinate a durare nel tempo, Capucci si riappropria della seta che era stata falcidiata a favore del sintetico dalla politica economica dell’austerity prebellica e introduce il colore in una varietà infinita di sfumature, sintetizza i concetti di arte e moda come nessuno aveva mai lontanamente immaginato. Egli riporta in auge il glorioso passato degli abiti principeschi, fiabeschi, epici, capaci di trasformare le modelle in creature fantastiche.

 

E anche se solo a poche elette era concesso il privilegio di possederne uno, tutti li potevano ammirare. Oggi sono esposti nel Museo Fondazione Capucci a Villa Manin nei dintorni di Udine. Roberto Capucci ha riscritto pagine mitologiche con sete preziose, fil di ferro, plissé e tanto altro, come nelle Metamorfosi di Ovidio, ha trasformato le sue muse o capuccine in Angeli, Oceani e Farfalle multicolori. Per farlo ha guardato al mondo con stupore, con dedizione e rispetto e ce lo ha restituito sotto forma di meraviglia.