La passione, la letteratura, i viaggi, il rapporto con i giganti della letteratura. La scrittrice cosmopolita, si racconta. E con il memoir "Vita mia" riapre la ferita della prigionia in Giappone nel 1943

Plurale è un aggettivo che le piace. Lo usa per descrivere sé stessa. E il suo libro più recente, “Vita mia” (Rizzoli), adunata di una famiglia intera per raccontare la sua storia di bambina in un campo di prigionia, nel Giappone del 1943: con il padre Fosco, antropologo e orientalista fiorentino, la madre Topazia Alliata, artista palermitana, le sorelle Toni e Yuki.

 

Da lì, da quel ricordo che smuoveva troppo dolore per essere raccontato prima, e dalla promessa mantenuta di farlo, ha origine un memoir densissimo di esperienze: letteratura, amori, incontri, Storia. E di un albero genealogico con radici estese e sorprendenti: nonna Sonia, cilena, che aveva studiato canto alla Scala; nonno Enrico, aristocratico con Tolstoj nel cuore che intanto lavorava, in Sicilia, coi vignaioli della sua cantina Corvo; nonna Yoï, mezza inglese mezza polacca, che zaino in spalla partiva a piedi per il mondo fino all’incontro con lo scultore Antonio Maraini, svizzero di origine.

 

«Sono plurale, sono multietnica», dice sorridendo la scrittrice Dacia Maraini: «Vengo da una famiglia di tradizioni liberali. Dove i libri sono sempre stati importanti: mio padre mi ha insegnato a considerarli un atto di libertà. E anche con la scrittura c’è stata sempre familiarità: scrivevano i miei genitori, la mia bisnonna scriveva libri per bambini. Che lo facessi anch’io era piuttosto naturale». Scrive dagli anni Sessanta: “Le vacanze”, “L’età del malessere”, “A memoria” i primi successi, seguiti da “Memorie di una ladra”, “Donna in guerra”, da decine e decine di testi teatrali. E poi “Il treno per Helsinki”, i programmi in tv per le strade di Palermo. L’impegno femminista, che la porta a fondare negli anni Settanta il Teatro della Maddalena. Agli anni Novanta appartengono i romanzi più premiati: “La lunga vita di Marianna Ucrìa” (più di un milione di copie vendute, Premio Campiello), “Bagheria”, “Voci”, “Dolce per sé”, “Buio” (Premio Strega). In mezzo saggi, racconti, testi per la rivista Nuovi Argomenti che dirige da anni. Cittadina onoraria di Arona, dove organizza un festival, ha pubblicato libri sulla scuola (“La scuola ci salverà”), sull’Italia che cambia (“Una rivoluzione gentile”), su Chiara di Assisi (“Elogio della disobbedienza”). Nel 2022 con “Caro Pier Paolo” rievoca l’amico Pasolini. E torna a quei quasi vent’anni passati a fianco dello scrittore Alberto Moravia. Al mondo culturale di allora: da Elsa Morante a Maria Callas. Tra compagni di viaggio e avventure, dalla Cina alla Corea, dall’Africa al Giappone.

 

«Il viaggio è nel mio Dna. Anche Alberto era un viaggiatore meraviglioso: proprio il viaggio è stato uno dei nostri punti di incontro. Ne abbiamo fatti molti. L’ho amato tantissimo, ma non era difficile: eravamo molto simili, avevamo le stesse passioni, potevamo restare vicini a leggere per ore. E anche se con gli altri Moravia passava per un tipo scontroso, difficile, in realtà era un uomo allegro, gioioso. Ogni tanto veniva fuori il suo lato più infantile. Aveva un carattere straordinario: generoso, gentile, non gli ho mai visto fare meschinità. Magari tutti gli uomini avessero quella dolcezza. La sua assenza è un rimpianto enorme», dice la scrittrice, occhi chiari che non hanno perso un filo del loro magnetismo, esaltato da un kajal fedele allo stesso azzurro. «Niente di speciale», sorride: «Una matita che cambio continuamente. E mi arrabbio perché non ritrovo mai la stessa».

 

Perché tutto muta, si trasforma. Solo l’amore resta. 

 

«Ho amato tanto, l’amore è stata una componente importante nella mia vita. E non parlo solo di amore per una persona. Parlo anche di amore per i libri, per i viaggi, per la conoscenza. L’amore è impeto di vita. È desiderio di conoscere e di mettermi in rapporto con gli altri. Quando si dice che l’amore finisce, credo che sia solo il sesso, che è misterioso e imprevedibile, a svanire. Quando non c’è più attrazione, se c’è stato vero amore resta un senso profondo di solidarietà, resta la tenerezza. A me è successo con Alberto quando si è sposato con un’altra donna, tra l’altro un’amica a cui voglio bene (la scrittrice spagnola Carmen Llera, ndr): è rimasto grande affetto. Non capisco come l’amore possa trasformarsi in odio. Se sono stata gelosa? No, non ho mai provato gelosia verso di lei. Di fronte all’attenzione di una persona che amo verso un’altra, scatta in me la curiosità di capire, di conoscere. E questo evita la gelosia, la trasforma in curiosità e in interesse. La gelosia è espressione di debolezza».

 

E la gelosia nell’ambiente letterario: l’ha provata, l’ha percepita? «Sono una convinta animalista. Ho sempre avuto animali, caprette, piccioni, gatti, cani, cavalli. Penso che gli esseri umani soffrano i loro stessi sentimenti, rabbia e gelosia, bontà e gentilezza. Negli uomini però cultura e riflessione permettono di prevalere sugli istinti. Questo mi ha insegnato la cultura: che puoi avere momenti in cui vorresti uccidere un altro, però che essere dentro la civiltà umana vuol dire agire con rispetto». Ma era più feroce la società letteraria di un tempo o quella attuale? «Il mondo della cultura era più unito: magari c’erano dinamiche emotive più forti però c’era anche tanta solidarietà. E ci si frequentava spesso. Oggi c’è distacco, indifferenza, separazione: ognuno gioca la sua partita. Io conosco tutti gli scrittori del mio tempo, siamo in ottimi rapporti. Ma mentre una volta ci si incontrava in case private e fuori, oggi ci si vede solo in occasioni pubbliche».

 

Le voci di chi non c’è più, però, continuano a ruotarle intorno: «Quella cerimoniosa e ingolata di Gadda, quella squillante e cantilenante di Maria Callas, quella morbida e didascalica di Rossellini, quella bassa e gentile di Natalia Ginzburg», scrive nella raccolta di interviste sull’infanzia intitolata “E tu chi eri?”. «Voci di amici con cui ho chiacchierato, riso, mangiato», riprende Maraini: «Bernardo Bertolucci, Laura Betti, Dario Bellezza. Se chiudo gli occhi mi sembra di sentirli». Più di tutti Pasolini: «Pier Paolo l’ho conosciuto solo negli ultimi dieci anni della sua vita, però siamo stati vicinissimi, abbiamo scritto sceneggiature. E fatto una decina di viaggi in Africa: abbiamo convissuto, condiviso la casa a Sabaudia». Pier Paolo amato dalla Callas, tutt’altro che diva snob e scontrosa nei ricordi della scrittrice: «Era dolcissima, invece, una bambina fragile. Lei stessa lo ammetteva: sul palcoscenico so cosa devo fare dalla prima all’ultima nota, nella vita sono completamente esposta, specie in amore. Un viaggio che mi dispiace di non aver fatto? In Tibet, dove mio padre andò giovanissimo con Giuseppe Tucci. Ma i viaggi capitano, hanno una loro storia. L’Africa con Pier Paolo significava inseguire un sogno di purezza. Con Alberto in Giappone sono tornata nei posti dell’infanzia». Per fare i conti con loro. «Se mi reputo fortunata? Sul piano privato sì, su quello storico no: l’esperienza del campo di concentramento è stata terribile e mi ha segnata per sempre. “Vita mia” è un libro che volevo scrivere da anni. Ogni volta però era come riaprire una ferita. Adesso, mentre vendette e odi si risvegliano, ho pensato che fosse il momento di portare la mia testimonianza».

 

Dacia Maraini ha sette anni quando la sua vita cambia. Il padre, che insegna all’università di Tokyo, e la madre sono convocati dalle autorità giapponesi per giurare fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò. I due dicono di no. La coppia e le figlie vengono portati in un campo per traditori della patria. Iniziano due anni difficilissimi: costretti a vivere con pochi grammi di riso al giorno, tra malattie, vessazioni. In un campo alla periferia di Nagoya, tre stanze per 19 persone, freddo e coperte infestate dalle pulci. «Dormivamo abbracciati con una famiglia di scimmie su un albero spelato», scrive, annotando dolore e umiliazione, come quando il padre fruga nella spazzatura per cogliere dai resti dei giornali qualche notizia del mondo. «Ma nulla è più brutto della fame. Volevo chiamare questo libro semplicemente “Fame” perché eravamo prigionieri della fame, professionisti della fame. Quando la fame ti guida diventi ossessionato dal cibo; io avrei mangiato le pietre, le immaginavo diventare pane, pesce, frutta. In quelle condizioni, mio padre ci insegnava le tabelline cantando. Ci parlava di filosofia, raccontava i libri come quelle persone-libro che tramandano le storie dopo che un dittatore li ha bruciati tutti».

 

Col Giappone continua ad avere un rapporto d’amore: la violenza di pochi non ha offuscato la generosità di molti. «A quel Paese devo il mio rapporto con la morte, l’idea che sia solo un passaggio dal quale si rinasce. E i morti non sono fantasmi che fanno paura, ma presenze che aiutano a vivere meglio. Amici dei bambini, come per la festa dei morti in Sicilia, mutuata dagli spagnoli». Sarà l’isola la terra che riaccoglierà i Maraini dopo il trauma del campo di concentramento, cura di mare, sole e i giardini profumati di Bagheria. Da allora i libri invaderanno la sua vita. «Ma non mi chieda quale amo di più, è come chiedere qual è il figlio preferito, impossibile rispondere. L’ultimo è sempre quello che mi coinvolge di più». E ognuno ha la sua genesi. «Come nascono? Succede che un personaggio arriva, bussa alla porta, io apro, gli offro un caffè, dei biscotti e lui mi racconta la sua storia. Poi se ne va. Ma a volte qualcuno mi chiede un letto per passare la notte e poi la mattina mi domanda la prima colazione e pretende anche il pranzo. Allora so che questo personaggio si è accampato nella mia testa e dovrò scriverne. Così è stato con Marianna Ucrìa, così con tutti gli altri. Ora era il tempo di “Vita mia”. Per spiegare come la guerra possa cambiare la vita in un soffio».