L'attore e attivista esordisce alla regia con "Palazzina LAF", film sugli ottanta operai mobbizzati dall'acciaieria e confinati in un edificio “manicomio”. «Mio padre è un ex operaio Ilva e seguo la vertenza da quando ho 15 anni. Ma per molti non avrei dovuto fare questa pellicola»

La cultura operaia gli appartiene, l’ha sempre respirata in casa e ha deciso di farci un film. Si intitola “Palazzina LAF” il primo film da regista dell’attore tarantino Michele Riondino, racconto-denuncia di quel confino in fabbrica nel complesso industriale dell’Ilva di Taranto che fu riconosciuto come il primo caso di mobbing d’Italia. Era il posto in cui 79 lavoratori altamente qualificati – ma considerati scomodi - nel 1997 furono demansionati e costretti a passare intere giornate senza fare nulla, in quello che in tribunale fu definito “una specie di manicomio”. Dal 30 novembre al cinema, lo vede calarsi nei panni del protagonista Caterino, un operaio ingenuo trasformato in spia dal dirigente aziendale (Elio Germano) al fine di individuare i lavoratori di cui liberarsi.

 

Questo film nasce da una vita spesa a protestare per le ingiustizie perpetrate a Taranto, dall’età di?
«Avevo 15 anni quando facevamo i primi scioperi e cortei (oggi ne ha 44, ndr). Dal 2012 partecipo in modo più continuativo come attivista e in tutti questi anni mi sono occupato della materia di vertenza dedicata a Taranto e all’acciaieria attraverso una serie di iniziative. Ho partecipato a diversi progetti legati alla protesta, tra concerti, interviste, dibattiti e documentari, ma non avevo ancora usato il mio linguaggio. Nel frattempo ho potuto raccogliere il materiale per raccontare una storia che avesse a che fare con la genesi del problema. Cioè quando a Taranto si è iniziato a considerare il profitto come unica legge, per mascherare poi l’abuso nei confronti dei lavoratori».

 

Lei è un operaio mancato?
«Se non fossi partito a 18 anni sarei entrato in fabbrica a sostituire mio padre nel reparto in cui lavorava».

 

Invece è partito, è diventato attore e adesso regista, pronto a battersi per gli operai e raccontarne la violenza del tempo “sospeso” nei così detti reparti lager.
«Prima che si sapesse cosa fossero, gli operai come mio padre, mio zio e gli amici di famiglia me ne parlavano come di un paradiso. Non avevano gli strumenti per capire il disagio di vivere un tempo sospeso come quello della Palazzina LAF, dove era vietato fare qualsiasi cosa che non fosse aspettare. I vigilantes sequestravano libri, giornali, carte da gioco, palle, tutto era proibito. Una tortura a tutti gli effetti, eppure è il tempo sospeso che la classe operaia vive ancora oggi: ci sono oltre quattromila lavoratori dell’Acciaieria in cassa integrazione, è una sorta di nuova Palazzina LAF, costretti anche loro a non poter fare nulla».

 

Una scena del film “Palazzina LAF” di e con Michele Riondino

 

Suo padre ha visto il film? Come ha reagito?
«Non l’ha voluto vedere fino alla proiezione in sala alla Festa del Cinema di Roma, dove il film è stato presentato in anteprima. È rimasto molto colpito. Durante le riprese era sempre attento a farmi notare come fare un film su questo tema fosse rischioso per me e si accertava che raccontassi le cose in maniera giusta».

 

Che cosa c’era dietro a quel timore?
«Qualcosa che mi succede da anni ormai: c’è chi dice che io non possa parlare di Taranto. Certi lavoratori e sindacati mi consigliano di non occuparmi di un tema che per loro non conosco, mi ripetono: “Continua a fare cinema, non politica”. Ho deciso di realizzare questo film perché è il mio modo di fare politica nel mio linguaggio. Ora cosa possono dirmi, di non fare neanche cinema?».

 

Quanto le costa esporsi politicamente come attore?
«Non è facile, io non faccio attivismo per il gusto di farlo, o perché sia chissà quale fervente ambientalista, cosa che sono soprattutto per lasciare un mondo migliore a mia figlia. Sono figlio di operai e rivendico la cultura degli operai. Sono soddisfatto del mio percorso lavorativo, dico parecchi “No” e posso farlo. Certo se ai tempi di Gian Maria Volonté ci si accapigliava per le sceneggiature facendo a gara per firmare la più scomoda, oggi manca un tipo di cinema critico, scomodo. La politica stessa non è più scomoda, a sinistra c’è una sorta di pudore, imbarazzo e morbidezza che a destra non c’è. E il cinema è il riflesso della società che viviamo».

 

Se ci fosse una “Palazzina LAF” nel cinema ci si ritroverebbe dentro?
«Preferisco non pensarci, di sicuro sarei con Elio Germano anche lì, quindi in buona compagnia».

 

Ha voluto Germano in questo suo primo film, nei panni di un cinico dirigente. Com’è andata?
«Elio è stato il primo a leggere la sceneggiatura, insieme al regista Daniele Vicari. Sono due persone a cui tengo, che ne capiscono più di me e di cui avevo bisogno di sentire l’opinione. Appena letta la sceneggiatura è stato Elio a rendersi disponibile, convincendomi a interpretare Caterino».

 

Che cosa ha Caterino in comune con il suo Vincenzo Florio della serie “I Leoni di Sicilia”?
«Una forte ambizione, sono due uomini del Sud che provano a farcela, anche a scapito degli altri. Io sono meno ambizioso: ambisco solo a continuare a fare il mio lavoro, per il resto le sfide sono sempre con me stesso, non con gli altri».

 

Dopo sette anni di ricerche e lavoro il suo film sta per approdare in sala: è più forte l’emozione o la paura?
«Il timore è che possa essere facilmente boicottato: in tutti questi anni, quando ho avuto modo di raccontare la mia versione dei fatti, ho sempre incontrato ostracismo. Ho trovato muri e orecchie sorde anche nelle trasmissioni che tendono ad affrontare temi che mi sono vicini, a me, che sono di sinistra fin troppo. È un fatto: chi come me racconta Taranto in un determinato modo non viene ascoltato, le nostre verità sono scomode anche per una certa sinistra».

 

Il cinema italiano in compenso sta tornando politico, penso alla commedia “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi che sta sbancando al botteghino.
«Sono molto felice per Paola. Abbiamo girato i nostri film nello stesso periodo, ci sono coincidenze che mi fanno sorridere: entrambi sono film sul sociale, non vogliono essere drammatici a tutti i costi perché la realtà che raccontano è già drammatica e contengono immagini di repertorio. Si sentiva la mancanza di un cinema politico popolare: magari si tornasse a dire la propria e non aver paura di esporsi in Italia. Sarebbe bello che anche il mio film fosse visto, così da poterne firmare un altro ancora più scomodo».