Le novità scelte per le serate alla consolle riunite in una playlist aggiornata ogni settimana. Per aprire il mercato italiano a una new wave globale a cui la definizione di "world music" ormai sta stretta. Dalla newsletter de L'Espresso sulla galassia culturale araboislamica

Il meglio dell’avanguardia musicale africana a portata di cellulare: è quello che si propone di fare “Afroteque: the urban sound of Africa”, la playlist di Spotify curata dalla dj Nina Kipiani per Sony Music Italy e Soul Food Promotions. Il progetto di esplorazione della musica africana contemporanea, principalmente afrobeats (nata in Africa occidentale) e amapiano (più sudafricana), è stato presentato al Moysa durante la Milano Music Week: una serata piena di ritmo, con ospite d’onore il cantautore e produttore nigeriano 1da Banton (il suo “No Wahala” con 100milioni di stream è uno dei brani afrobeats più ascoltati di Spotify). Di Afroteque abbiamo parlato con Manuel Nicoli, Head Of International Frontline di Sony Music Italy.

 

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Come è nata l'idea di questa playlist?
«Negli ultimi anni si è sviluppata una grande attenzione per il continente africano da parte dell’industria discografica. I motivi principali sono due, il primo è che l’Africa è diventata una fonte di repertorio importante a livello internazionale, il secondo è il mercato interno. Sempre più artisti africani hanno firmato un contratto con etichette americane, inglesi e francesi. Noi di Sony abbiamo i nigeriani Wizkid e Davido, e la sudafricana Tyla, che è una delle artiste più cool a livello internazionale. Il successo nasce dal fatto che molti artisti africani sono riusciti a creare un ponte in Occidente con i cosiddetti figli della diaspora, portando la loro musica fuori del continente e creando un mercato estero solido per la musica africana».

 

Quindi all’inizio è stato un mercato della diaspora?
«Sì, è un fenomeno iniziato in Usa, Uk, Francia, Belgio: Paesi dove l'immigrazione ha avuto uno sviluppo precedente al nostro. Qui il successo dell’afrobeats e c dell’amapiano non riguarda solo le seconde e terze generazioni di immigrati ma è un  fenomeno mainstream. Poi però c’è il business locale: negli ultimi anni grazie allo sviluppo del digitale c'è stata una crescita esponenziale del numero di persone connesse ad Internet in Africa, e quindi anche di persone, soprattutto giovanissimi, che consumano musica in streaming. Questo non solo in Sudafrica, che è probabilmente il paese più all'avanguardia del continente da questo punto di vista, ma anche in West Africa: Nigeria, Ghana, Costa d'Avorio, Senegal… E soprattutto Nigeria, dove si sta creando un mercato importante per la musica non solo in termini di offerta ma anche di consumo. Quindi ovviamente molte case discografiche, soprattutto multinazionali, hanno aperto uffici in Africa o comunque hanno un occhio di riguardo verso questi Paesi».

 

Quindi la stessa musica è sia per il mercato interno che per esportazione: non succede sempre, spesso all'estero arrivano al successo musicisti diversi da quelli amati in patria.
«Sì: è nata diciamo per esportazione, per farsi ascoltare dalle seconde generazioni, ma poi negli ultimi anni è diventato anche un campo molto importante dal punto di vista del consumo. La prova di quanto ora più che mai la musica afro sia sulla cresta dell'onda a livello internazionale è che molte istituzioni occidentali hanno nuove categorie di premi: gli Mtv music Awards hanno aggiunto quest'anno quella di Best Afrobeats, i Grammy hanno annunciato qualche mese fa la nuova categoria di Best African Music Performance, dove tra l'altro sono stati nominati i nostri Davido e Tyla. Poi ci sono gli American Music Awards che sono stati i primi ad aggiungere la categoria. Al tempo stesso Spotify, che è il player numero uno dello streaming audio a livello mondiale, ha messo l’afrobeats sotto i riflettori e sta lavorando in maniera molto importante su questo repertorio che finora ha già prodotto più di 15 miliardi di streaming».

 

Questo progetto nasce come una playlist su Spotify: forse qualche anno fa avreste fatto un cd, o una serie di concerti. Quando si è diffusa la musica in streaming sembrava dovesse danneggiare il mercato, invece oggi dove c’è una connessione internet arriva la musica... Senza contare che un cd è statico, mentre una playlist può essere continuamente aggiornata.
«Esattamente: diciamo che ormai il nostro business è per l'ottantacinque o anche il 90% digital, e quindi anche il consumo della musica. Al tempo stesso, il digitale permette di aggiornare la playlist ogni settimana, ma potenzialmente anche ogni giorno. Però anche se la parte digitale è molto importante, il nostro obiettivo è quello di partire dai club, di arrivare a portare molti artisti di Afroteque a esibirsi in Italia».

 

Quindi al digitale si affiancherà la musica dal vivo?  
«Avevamo già fatto diversi esperimenti sulla musica africana nel corso degli ultimi anni. Ma il vero click su come provare a lavorare al meglio l’ho avuto un giorno dello scorso anno a Londra. I colleghi di Sony Musica Francia mi hanno invitato a un evento di un'artista nigeriano: una serata bellissima, coinvolgente, divertente, dove si percepivano una vitalità e un’energia che ho visto raramente. C'erano più di mille persone che ballavano e cantavano a squarciagola tutti i brani non solo dell'artista che si è esibito ma anche quelli che il dj suonava dalla console prima e dopo lo show. Nel corso degli anni io ho partecipato a una quantità di eventi simili, sia come professionista sia per interesse personale, ma un'atmosfera simile l'ho trovata ben poche volte. Quindi una volta rientrato in Italia ne ho parlato in azienda, abbiamo iniziato a pensare come sviluppare un lavoro discografico che portasse alla valorizzazione del nostro repertorio ma partisse dai club. Siamo convinti che sia importante partire dall'esperienza di una serata coinvolgente per fare emergere un trend che possa colpire il pubblico mainstream. Perché ovviamente il nostro obiettivo non sono le seconde o terze generazioni di persone di origine africana, che magari su questo tipo di musica ne sanno già più di noi, ma provare ad allargare il pubblico, far diventare questi generi musicali più mainstream possibile».

 

E come pensate di riuscirci?
«Siamo partiti dalla pubblicità online, stiamo lavorando per inserire più brani possibile di questo tipo nelle playlist dei vari partner digitali, stiamo lavorando con le radio e anche su TikTok. Stiamo andando in tutte le direzioni possibili, però crediamo che come in passato i club sono stati spesso portavoce delle nuove tendenze, anche per la musica afro in una prima fase di lavoro sia necessario puntare lì».

 

Io ho seguito la rubrica che Claudio Coccoluto ha avuto per diversi anni sull'Espresso, e ricordo che lui, che in principio doveva solo recensire locali, ha segnalato per primo la tendenza dei dj che hanno cominciato a produrre musica: oggi è normale, ma allora sembrava una cosa stranissima, e lui l'ha segnalato per primo perché è una novità che è nata nei club…
«Diciamo che i club per la musica dance, per la musica rave e per altri tipi di musica inizialmente più di nicchia, non ovviamente per il pop, sono stati portavoce delle nuove tendenze. Quindi noi per la musica afrobeats e amapiano abbiamo cercato di identificare dove si facevano serate in giro per l'Italia. Così ci siamo imbattuti in questa società, Soul Food Promotion, che dal 2008, quindi ben prima del boom, lavorava con artisti africani per la parte live. Ci siamo visti, ci siamo parlati e abbiamo stretto una partnership che ci permetterà da un lato di offrire ai nostri artisti la possibilità di venire in Italia ad esibirsi nei club, e al tempo stesso, una volta che gli altri sono qui, di poter offrire ad altri artisti il nostro supporto come discografici: quindi opportunità promozionali, interviste, marketing…»

 

Mi chiedevo com’è diviso il ritorno economico nel vostro progetto: c’è Sony, c’è Spotify, c’è la dj… E gli artisti? Glielo chiedo perché all'inizio dei rapporti tra il mondo occidentale e la musica africana ci sono stati dei casi eclatanti di sfruttamento.
«Diciamo che gli artisti che hanno firmato con Sony hanno generalmente contratti in Africa, non in Italia: Sony Sudafrica, West Africa, a volte Francia per i cantanti francofoni. E ovviamente non tutti gli artisti di Afroteque sono Sony: hanno altre etichette, con normali contratti per quanto riguarda l’ascolto della loro musica online. Sony è sempre stata molto attenta agli equi compensi degli artisti: qualche anno fa ha anche lanciato una campagna per cancellare gli anticipi non coperti».

 

Di cosa si tratta? Una versione in piccolo della cancellazione del debito dei Paesi africani verso l’Occidente?
«Qualche anno fa è stata lanciata da parte di Sony, in tutto il mondo, il Legacy Unrecouped Balance Program, un programma che permetteva ad artisti che avevano ricevuto anticipi non coperti dalle vendite di cancellare il loro debito nei confronti di Sony. Così hanno potuto continuare a lavorare e ottenere nuove royalties per il loro lavoro».

 

In Afroteque c’è solo Africa subsahariana?
«Il Magreb, la musica francofona, sono seguiti principalmente da Sony Francia, che sta facendo da anni un ottimo lavoro anche rispetto all’Italia. In questi giorni, per fare un esempio, abbiamo lanciato un duetto di Manal, una delle popstar marocchine più famose, con Ghali (che non è un artista Sony). Queste collaborazioni tra  Magreb e artisti italiani è una costante che si sta sviluppando. In Afroteque però ci sono principalmente afrobeats e amapiano, quindi suoni di West Africa e Sudafrica…»

 

Quali generi musicali ci sono nella playlist? Solo disco o anche pop o altro?
«Un po’ di tutto, perché afrobeats è un termine-ombrello che contiene i diversi generi musicali che sono nati in West Africa: l’afro pop, l'afro fusion… Tutto quello che sceglierà la dj che cura la selezione, Nina Kipiani. È nata in Africa da madre camerunense e padre georgiano, è cresciuta a Parigi e ora è di base a Roma, e si sta affermando come una delle dj più cool. Per questo l’abbiamo nominata nostra “ambassador” della playlist: ci saranno i brani che lei sceglie per le sue serate, non tutta musica firmata Sony ovviamente ma anche indipendente o di altre etichette».

 

Presentando Afrotheque lei ha detto che è un passo avanti rispetto alla world music, che è ormai superata. Ma perché la world music è superata?
«La categoria della world music è nata negli anni 80 come un genere musicale che prevedeva la contaminazione tra elementi di pop occidentale ed elementi di musica tradizionale, etnica. Ma in breve tempo è diventata un termine-ombrello che andava a coprire tutta la musica non occidentale. Nei negozi di dischi io trovavo sotto il pop e il rock tutta la produzione europea e americana, poi musica dance e poi c'era un angolino con la world music dove c'era tutto ciò che non era musica occidentale, dall’Africa al Sudamerica».

 

Un calderone che univa Miriam Makeba e gli Inti Illimani…
«Ecco, sì. Oggi invece la musica afrobeats e amapiano è diventata in diversi paesi del mondo un vero fenomeno pop. La musica africana ha una sua identità a livello globale, e riesce a raggiungere un numero di persone incredibile in tutto il mondo. Come è successo lo racconta bene un documentario che ho visto recentemente su Sky, “African pop culture”. È un fenomeno mondiale che in Italia non è ancora arrivato a maturazione: ma sono sicuro che nei prossimi anni riusciremo a fare un ottimo lavoro su questo repertorio».