L’economia bellica per le classi più ricche e istruite rappresenta un'opportunità di successo attraverso il clientelismo. Il sostegno allo zar non è per paura ma per proteggere i propri interessi

I sondaggi nelle dittature vanno presi con le pinze, è vero. Ed è specialmente vero nella Russia di Vladimir Putin, l’ex spia del Kgb oggi monarca assoluto che non tollera la minima opposizione. Un esempio: lo scorso mese Alexandra Skochilenko, artista e attivista, è stata incarcerata per sette anni. La sua colpa aver sostituito in un supermercato di San Pietroburgo i cartellini dei prezzi con messaggi contro la guerra in Ucraina. A volte però anche i turbo patrioti finiscono nei guai; Igor Girkin, detto Strelkov, ossia “cecchino”, ex separatista in Donbass, ex ufficiale dell’esercito, è stato arrestato perché accusava Putin di fare la guerra troppo mollemente.

L'artista russa Alexandra Skochilenko, 33 anni, in carcere per aver espresso pacificamente il proprio dissenso sull’offensiva militare russa in Ucraina

Per paura, per conformismo, gran parte dei russi sceglie l’apatia. Anche nelle risposte di un sondaggio anonimo resta cauta e pro regime. Il motto è: lascia lavorare lo Zar, cerca di sopravvivere. Ai loro occhi Putin è un leader legittimo, quindi deve esserlo anche la sua «operazione militare speciale». La Russia è lontana dal caos dei primi giorni di guerra, quando il rublo crollò e sembrava che l’economia si sarebbe schiantata, tra proteste di piazza e fughe all’estero. Da allora il Pil si è stabilizzato grazie all’alto prezzo del petrolio. Il dissenso è stato represso nel sangue. 

 

Ma torniamo ai sondaggi. Ce n’è uno che forse fa capire come mai la macchina di Putin non si è inceppata. Chi sono i russi che sostengono la guerra? I più scettici sono i giovani – abbastanza prevedibile. La cosa sorprendente invece è che le persone, più sono ricche e istruite, più sembrano favorevoli a continuare la guerra. È quanto emerge da una rilevazione di Russian Fields, istituto indipendente di sondaggi. Lo studio indica che esiste un’élite fedele a Putin, per comodo, non solo per paura. Questa élite si sta avvantaggiando dell’equilibrio portato dalla guerra e sta aiutando il Paese ad adattarsi. Un accademico russo – riporta l’Economist – prova a spiegare questo meccanismo in un articolo uscito su Meduza, giornale online di opposizione. Il Cremlino conterebbe su una vasta – e in parte nuova – classe di burocrati e uomini d’affari che hanno raggiunto successo e status attraverso il clientelismo, e dunque sosterranno il regime per proteggere i propri interessi. 

 

«Sono milioni e si sono inseriti e prosperano nell’economia dell’aggressione militare», ha detto l’accademico. Intendiamoci, nel lungo periodo le prospettive economiche russe appaiono desolanti. È vero che il Paese ha retto molto meglio del previsto le sanzioni. Il suo interesse nazionale però era stare legato all’Europa, non fare il gregario della Cina. Un milione di russi, spesso i più istruiti, sono scappati. E la guerra pesa sul bilancio sottraendo risorse al resto: istruzione, sanità, ambiente. Un rublo svalutato rende le importazioni più costose, facendo salire l’inflazione (al 12% su base annua nel terzo trimestre del 2023), quindi costringendo la banca centrale a tenere alto il tasso d’interesse, oggi al 15%, cosa che soffoca gli investimenti privati. Ma il nuovo equilibrio, per quanto fragile, è anche un’opportunità. Ci sono aziende occidentali da rimpiazzare, società nazionalizzate da gestire, i tecnocrati sono molto richiesti per sfide d’ogni tipo, dall’economia al reclutamento dei soldati. 

 

Nel 2024 il budget militare aumenterà del 70% a oltre 100 miliardi di euro, record post sovietico. La produzione industriale cresce di conseguenza. E ciò ha attivato una pletora di intermediari che fa entrare dall’estero la tecnologia colpita da sanzioni – i microchip, ad esempio, senza i quali non si produce nulla. Di questo keynesismo bellico si giovano in molti – dipendenti di imprese statali, alcune parti del settore It, le aziende che ricevono contratti militari e quelle che hanno avuto successo nella sostituzione delle importazioni. Va detto che il mondo del business resta attaccato al regime anche per mancanza di alternative: oltre alla repressione interna, le sanzioni e il controllo sui capitali in uscita non lasciano altra scelta se non quella di investire in patria. E poi c’è il collante che lega tutto, la rendita energetica. Secondo il think tank Re:Russia, nel primo anno di guerra il Cremlino ha incassato dall’export 590 miliardi di dollari, il grosso proveniente da petrolio e gas: 160 miliardi in più della media annuale del decennio scorso. Nel 2023 i ricavi dovrebbero essere ancora superiori alla media di 60 miliardi di dollari. Questo denaro crea la base di sostegno che beneficia materialmente della guerra di Putin.

 

Anche la morte rischia di essere una decisione sensata. Il Piast, un centro studi di Varsavia, calcola che la famiglia di un soldato russo ucciso dopo cinque mesi di servizio può ricevere anche 15 milioni di rubli, l’equivalente di quasi 150mila euro, una somma pari a decine di anni di stipendio di un uomo comune – e per i maschi in Russia la vita media è di appena 65 anni. Questi soldi, nel povero entroterra, facilitano il reclutamento. In più, la produzione di armi dà respiro alle aree industriali depresse. Ma chi ha un reddito basso – tornando al sondaggio di Russian Fields – preferirebbe comunque che Putin firmasse subito un accordo di pace. L’unico gruppo favorevole a proseguire il conflitto è quello dei più ricchi e istruiti. In pochi evidentemente temono di finire in trincea e l’accesso al potere li fa prosperare nel nuovo ordine. Chi ha idee più liberali, o forse meno agganci, deve rassegnarsi oppure scappare. 

 

Secondo Russian Fields, vorrebbe continuare la guerra più del 50% di chi ha un titolo di studio «avanzato» e il 60% di chi ha un reddito «alto»; al contrario chi guadagna soltanto «sopra la media» opterebbe per la pace, così come il resto degli abitanti più poveri e meno eruditi. Il 75% degli intervistati infatti appoggerebbe un negoziato di pace immediato, se Putin lo proponesse. Inoltre la stragrande maggioranza sembra contraria a un altro ciclo di mobilitazione.

Il capo della Banca centrale russa Ėl'vira Nabiullina

Ma ecco qualche esempio concreto dell’élite che trova vantaggi e status nella guerra. È vero che diversi funzionari junior e di medio livello hanno lasciato banca centrale e ministeri economici; però sono rimasti ai loro posti quasi tutti i tecnocrati senior. Ėl'vira Nabiullina, la capa della banca centrale, è diventata un eroe. Fautrice del libero mercato, ha stabilizzato l’economia con misure eterodosse, tra cui il controllo rigido dei capitali. «Avrebbe dovuto dimettersi. Ma sente che sta facendo il suo lavoro», dice di lei un oligarca sanzionato. Per tecnocrati come Nabiullina tenere a galla lo Stato è una sfida professionale e un modo per guadagnare prestigio. Fedeltà e competenza ottengono un premio speciale, ed è meglio quello che un esilio all’estero da scrittore dissidente. L’etica passa in secondo piano.

 

Un altro esempio è il ministro della trasformazione digitale, il 44enne Maksut Shadaev. Nel 2016 ha lanciato il portale Dobrodel, un app per accedere a servizi pubblici. Oggi sta usando le stesse doti informatiche per costruire una banca dati nota come Cyber Gulag, con cui il governo rintraccia gli uomini idonei alla leva. Il caso di VKontakte, il più grande social network russo, spiega invece le opportunità dell’autarchia. Dopo la chiusura in Russia di Facebook e Instagram, VKontakte ha guadagnato milioni di utenti in poche settimane. Il network, gestito dal pronipote di un amico di Putin e da altri figli dell’élite, è imbevuto di propaganda in favore della guerra.