Carcere e legge
Tre assorbenti, una molletta e docce a tempo: le vessazioni senza senso del 41 bis
Dovrebbe impedire i contatti tra boss detenuti e l’esterno. Ma regolamenti carcerari, le emergenze cicliche e i provvedimenti dei giudici di sorveglianza lo hanno trasformato in un girone infernale. Con abusi, violenze e situazioni kafkiane
Il portone della cella, sbarrato dalle 22 alle 7 in estate e dalle 20 in inverno. L’interruttore della luce, fuori, in corridoio. Libri centellinati e dalla biblioteca interna, mai più di uno, quattro se si studia. Ci sarebbe il dvd, a proprie spese, ma solo per leggere cd e mai la notte. L’abbonamento ai giornali, senza edizioni locali: potrebbero veicolare messaggi. E anche la tv ha un menu bloccato. La radiolina, solo in modalità Am. A passeggio nel cubicolo per due ore al giorno e una di attività fisica o socialità. Ovvero lo svago, al massimo con altri quattro detenuti: un mazzo di carte, qualche gioco da tavolo nell’area comune. Il computer, quando c’è, sta lì. Doccia due volte a settimana, tranne che per i superboss che l’hanno in cella. Il getto, equanime, dura però dai tre ai sette minuti. Una visita dei parenti al mese, dietro al vetro, e per un’ora. Neppure quella, se si opta per una telefonata di dieci minuti. Controllata come i colloqui. Il pacco con viveri e biancheria, al massimo dieci chili.
Più che duro doveva essere blindato. Impermeabile dall’esterno, a compartimenti stagni all’interno. Questa era l’intenzione di chi immaginava un carcere che, nel recinto della Costituzione, fosse in grado di interrompere il circuito di informazioni tra affiliati a mafia e terrorismo. Niente notizie, niente ordini, niente pizzini, nessun contatto fisico tra detenuti e familiari. Poche interazioni e mai tra componenti di uno stesso clan o di clan alleati. Controlli rigorosi, ascolti, telecamere e gli occhi degli agenti a scrutare ogni mossa e a memorizzarla.
Il 41 bis, la norma dell’ordinamento penitenziario massicciamente applicata dopo l’orrore degli eccidi del 1992-1993, salvo alcuni episodi, ha realizzato quell’obiettivo. Lo ha mancato quando l’ordine di uccidere passato dalle maglie dei rigori ha colpito gli stessi agenti della polizia penitenziaria.
Ha contribuito a stroncare la dittatura corleonese, ha poi spezzato la catena di proselitismo delle rinnovate Br. Ha scongiurato altro sangue. E alimentato un patrimonio di informazioni su quel che covava sotto la cenere. Perché il carcere è da sempre lo specchio di ciò che avviene nell’universo delle cosche. Voci di dentro, che la reclusione amplifica, segnali che, se colti, anticipano i tempi.
Ma il 41 bis si è trascinato dietro anche una quantità di danni. In larga parte evitabili. Perché non la norma ma la sua applicazione, la prassi e la discrezionalità, fatta di circolari ministeriali, regolamenti carcerari, provvedimenti dei magistrati di sorveglianza, hanno generato disparità, abusi, interventi estemporanei, fino a farne un surplus di pena, al limite della tortura. In un impasto di pressioni psicologiche e situazioni kafkiane.
L’albo dei ricorsi ne è pieno. Friggere melanzane due ore prima del pranzo è violazione da punire. Da fuori, sì alle patate al forno ma niente pollo. Per le dodici donne su un totale di 738 ristretti al 41 bis (nel ’93 erano poco di più di 500) c’è il limite al numero di assorbenti: tre. La nipotina alla quale è stato concesso di abbracciare il nonno per dieci minuti oltre il vetro ha però scartato una merendina. Il rumore ha coperto la registrazione e la circostanza è finita in una nota. La lista dei generi acquistabili a Opera è una, a L’Aquila cambia. Anche il numero di mollette da bucato è ballerino. Una o dieci da un carcere all’altro. E la risposta al ricorso contro l’applicazione del 41 bis (4 anni, poi estesi di biennio in biennio) arriva anche dopo che è stata confermata la proroga. E si ricomincia.
Il sistema che si arrabatta tra organici carenti, strutture fatiscenti e sovraffollate, lungaggini burocratiche e giudiziarie, non trova certo lì il proprio riscatto.
In nome di successi innegabili, poi, ci sono le violenze, tollerate, talvolta negate fino all’insabbiamento, relegate a una sorta di metaverso abitato solo da garantisti e pochi legali.
Come Rosalba Di Gregorio, che da avvocato di fede radicale non ha taciuto. Non lo ha fatto quando il falso pentito della strage Borsellino, Vincenzo Scarantino, incubato proprio nell’inferno di Pianosa degli anni ’90 diventò l’accusatore eterodiretto che ha lasciato in cella per 25 anni sette ergastolani innocenti. Era il tempo delle irruzioni notturne delle temibili squadrette, dei soprusi, delle perquisizioni corporali a familiari e detenuti anche molto invasive. Del «pèntiti o marcisci qui dentro» e giù calci e vessazioni. Di Calogero Ganci, rampollo dei Corleonesi raccontarono che non sopportasse quella galera. Da pentito confermò: «A Pianosa i detenuti erano massacrati di botte. Il cibo arrivava con gli stessi carrelli della spazzatura».
Da allora molto è cambiato, l’Asinara e Pianosa chiuse, alcuni correttivi introdotti ma sul rispetto rigoroso dello spirito del 41 bis bisognerebbe stare attenti a non deragliare. Tanto più adesso, di fronte al digiuno di Alfredo Cospito. Con trent’anni da scontare, fino a qualche mese fa poteva pubblicare sulle riviste anarchiche. Con il cambio di imputazione si è ritrovato al 41 bis. Quando forse sarebbe bastato lasciarlo nell’alta sicurezza censurandogli la posta.
Sostanzialmente indifferente ai tormenti penitenziari che non hanno grande appeal, neppure quando il numero dei suicidi dietro le sbarre raggiunge il numero di 84 in un anno, la giustizia da talk show replica il cliché. Richiama in servizio buonisti e manettari che oscillano tra Parlamento e salotti tv. E dà il via alla bolgia. Perfino l’ovvio, e cioè che i mafiosi guardano con favore alla battaglia di Cospito, anziché rafforzare la convinzione di attenersi al dettato della norma ed evitare derive indiscriminate, diventa terreno di speculazione politica d’accatto. Perché per difendere la bontà di uno strumento ritenuto essenziale bisognerebbe preservarlo dalle storture. E la vicenda dell’anarchico, con il suo boomerang mediatico, sembra andare nella direzione opposta, quella afflittiva, quasi una pena accessoria. Esemplare. Che la natura del 41 bis non ha. O non avrebbe mai dovuto avere.