Quanto ci arrabbiamo quando, in un museo, manca un capolavoro perché in prestito a qualche mostra? Nel caso del ciclo di Padernello di Giacomo Ceruti alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia non sarebbe un grosso danno, perché è stato spostato di qualche centinaio di metri (al Museo di Santa Giulia) per una grande mostra dedicata al pittore del ‘700 che ritraeva gli ultimi senza stereotipi: la vera magia dell’arte, però, sta nel saper fare di un’assenza una presenza. Ecco che allora la Fondazione Brescia Musei e il curatore Denis Curti chiamano uno dei più importanti fotografi contemporanei e chiedono di colmare quel vuoto, di offrire un punto di vista nuovo e diverso su Ceruti. David LaChapelle accetta ed ecco una mostra nella mostra, con un lavoro realizzato per l’occasione e alcuni tra i suoi scatti più iconici.
Ceruti ha immesso un codice nuovo nell’arte: fino a quel momento chi non apparteneva alle fasce abbienti della società veniva ritratto nel cliché del vizioso, del delinquente, dello zotico. Non erano poveri, ma poveracci da tener lontani o compatire. Ceruti è il primo a dipingere massaie, portaroli, frati, mendicanti, ciabattini, sarte, filatrici. Il tono non è moraleggiante, come accadeva nel ‘600, ma la cronaca di un’umanità che vive e non sopravvive. E anche se a un certo punto della vita disse «voglio essere sepolto da povero perché tale sono», nella sale della mostra sembra invece emergere una necessità di Ceruti di pescare tra quella gente perché aveva bisogno dei loro sguardi, della loro alterità. Dei loro colori. Gli stessi che sembrano avere travolto LaChapelle quando tutti i giornali del mondo lo chiamavano per i suoi ritratti in bianco e nero. L’Aids in quegli anni decimava la comunità omosessuale di New York e a un certo punto LaChapelle era convinto di avere contratto il virus.
Quando le analisi scongiurano quella paura, decide che da quel momento avrebbe visto la vita a colori. Abbandona il B/N e lo stile onirico e fiabesco diventa il suo marchio di fabbrica. E sbaglia chi pensa che le sue fotografie passino da una pesante postproduzione, perché in realtà sono frutto di set che necessitano ore e ore di preparazione. Questo aspetto si evince nelle fotografie della serie “Is Jesus My Homeboy” dove racconta i momenti della vita di Gesù trasportandoli però nei giorni nostri, con apostoli e discepoli che anziché sandali e tuniche indossano sneakers e felpe e vengono dai sobborghi delle metropoli. Ed è protagonista anche in “Gated Community”, lo scatto principale: una tendopoli che sorge davanti a un tempio dell’arte contemporanea, il Lacma di Los Angeles. Il Museo non è stato informato e chissà come prenderà il fatto che LaChapelle abbia scelto la loro struttura come fondale di un teatro di disperazione, proprio nei giorni in cui hanno concluso la raccolta fondi record di 750 milioni per l’ampliamento degli spazi.
Da Versace a Chanel, passando per Gucci, Dior, Vuitton e Burberry, quelle tende sono griffate nella stessa sequenza delle boutique di moda di Rodeo Drive. In questa immagine leggiamo lo stesso impetuoso tentativo di Ceruti di colmare le distanze sociali, in una città dove vivono 80.000 (ma forse molti di più) senzatetto. La California è lo Stato più ricco e più a sinistra d’America, ma gli invisibili continuano a rimanere tali. LaChapelle tira in ballo moda e arte in questa partita, chissà se e come la giocheranno.