In sala operatoria iniziano a scarseggiare bisturi elettronici e suturatrici meccaniche. E si stanno esaurendo le cannule e le sacche plastiche «che servono per le trasfusioni di sangue, per il plasma, ma anche per i medicinali oncologici», è preoccupato Alberto Capretti, chirurgo plastico del Policlinico di Milano e segretario del sindacato Anaao Assomed, perché la tagliola del payback - che fra due mesi imporrà a una miriade di piccole e medie imprese produttrici di dispositivi medici di sborsare 2,2 miliardi - rischia di lasciare gli ospedali sguarniti di gran parte dei dispositivi essenziali per curare i pazienti. I medici dovranno, letteralmente, operare a mani nude. «La situazione è gravissima. Rischiamo di ritrovarci persino senza il filo di sutura, senza siringhe, senza pace-maker, senza protesi d’anca e di ginocchio per gli interventi ortopedici.
Rischiamo di dover fare a meno non solo dei macchinari, ma anche degli aggiornamenti software per far funzionare le tac, le risonanze magnetiche, tutti gli strumenti diagnostici. Sarebbe un massacro e il governo se ne sta disinteressando».
Per capire cosa sta succedendo è necessario tornare al 2015, nel pieno della stagione di tagli lineari alla sanità e restrizione dei budget regionali per far quadrare i conti e ridurre il debito pubblico. Al governo c’è Matteo Renzi, che per rispondere ai richiami della Commissione europea inserisce il payback sui dispositivi medici. Il payback è una misura presente nel nostro ordinamento dal 2008 e finora utilizzata solo per la spesa farmaceutica: sostanzialmente, ogni Regione concorda con le aziende farmaceutiche un budget di spesa per i farmaci anche se, ogni anno, quella soglia viene puntualmente superata. Le somme in eccesso vengono spartite per metà a carico delle società farmaceutiche, l’altra resta sulle spalle delle Regioni. In realtà lo strumento del payback non ha mai funzionato a dovere, perché il più delle volte le aziende farmaceutiche procedono con ricorsi legali per evitare le salate gabelle, che ammontano a svariati milioni di euro l’anno.
Dal 2015 il governo Renzi decide di applicare questo metodo anche ai dispositivi medici, che sono una miriade: dai guanti in lattice, ai bisturi, dall’ecografo ai più sofisticati robot delle sale operatorie. La normativa di renziana memoria stabilisce che per il 2015 il 40 per cento dello sforamento al tetto di spesa è a carico delle imprese, il 45 per il 2016, il 50 dal 2017 in poi. La norma, però, resta sulla carta, perché fin da subito risulta chiaro che applicare il payback alle aziende produttrici di dispositivi medici, che forniscono materiale alle aziende passando attraverso regolari bandi di gara, è quanto meno complicato. Con la scusa della mancanza dei decreti attuativi, la legge sul payback viene dimenticata nel cassetto di qualche dirigente del ministero della Sanità. A dissotterrarla ci pensa il governo Draghi, che all'articolo 18 del decreto legge Aiuti-bis dello scorso agosto definisce le regole «per l’applicazione del sistema di compartecipazione delle imprese allo sforamento dei tetti regionali di spesa sanitaria che vanno dal 2015 al 2018», si legge nel testo. La verità è che, per via delle spese extra dovute alla pandemia, la maggior parte delle Regioni - Lombardia ed Emilia Romagna in testa - hanno bilanci in sofferenza, avendo dovuto sostenere circa la metà dei costi di vaccini, test, dispositivi connessi alla pandemia. I governatori hanno quindi provato a batter cassa a Roma, dove i quattrini, però, sono sempre pochi. Soluzione? Chiedere un contributo alle aziende del medicale: non a caso l’importo del payback dal 2015 al 2018 viene registrato come entrata nei bilanci regionali del 2022. «Dai nostri calcoli, per gli anni arretrati dovremmo versare alle Regioni 2,2 miliardi di euro. Se dovessero richiedere il payback fino ai giorni nostri il costo lieviterebbe a 5,5 miliardi», spiega Massimiliano Boggetti, presidente della Confindustria dei Dispositivi Medici, che la settimana scorsa - per l’ennesima volta - si è sgolato di fronte al Parlamento e al Senato per spiegare che quella gabella farebbe saltare la sostenibilità dell'intera sanità italiana: «Sembrano non capire».
A ottobre il ministero della Salute ha redatto le linee guida, le ha inviate alle Regioni, le quali a metà dicembre hanno spedito il conto alle aziende, pretendendo il pagamento delle somme arretrate entro metà gennaio. Dietro a una levata di scudi del settore, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha posticipato la scadenza a fine aprile, confermando però l’impianto del payback. Il problema è che le imprese del settore medicale non sono paragonabili alla ricca industria farmaceutica: sono 4.546 piccole e medie imprese, con un volume d’affari da 12 miliardi, danno lavoro a 112mila persone e investono mezzo miliardo in ricerca e sviluppo. «È come se ad aprile si chiedesse a queste aziende di pagare una tassa pari un sesto del fatturato. Molte sono sul punto di portare i libri in Tribunale, dovranno chiudere», spiega Boggetti. Non c’è il rischio che interrompano la fornitura agli ospedali, perché hanno sottoscritto accordi stringenti e c’è la precettazione sul materiale medicale, ma la mancanza di liquidità nelle casse delle società può portarle al default finanziario.
A metà dicembre le Asl hanno inviato le richieste di pagamento alle aziende e oltre 600 hanno risposto facendo ricorso al Tar del Lazio, ritenendo ingiusta la normativa del payback: «Nel caso delle aziende farmaceutiche può avere un senso, perché il prezzo dei medicinali viene negoziato. Ma l’acquisto dei dispositivi medici segue le gare d’appalto bandite dagli ospedali. Sono loro a dettare il prezzo, le imprese fornitrici non hanno alcuna voce in capitolo», spiega Boggetti. In molti casi le Asl hanno già proceduto a trattenere il denaro conteso dalle prossime fatture e le banche stanno alzando le antenne a fronte di insolite richieste di accesso al credito. «Nella pratica siamo in piena violazione della legge 833 del 1978 che ha istituto il Servizio Sanitario Nazionale secondo i principi dell'universalità, dell'uguaglianza e dell'equità», commenta il chirurgo del Policlinico Alberto Capretti, che continua: «Salta totalmente il concetto di prestazioni sanitarie a tutta la popolazione, per il semplice motivo che senza gli strumenti forniti dalle aziende del medicale non siamo più in grado di garantire le cure adeguate ai cittadini italiani».