Angélica Liddell: «La poesia non esiste più. Il nostro mondo ha dimenticato cos'è l'arte»

Scandalosa, estrema, anticonvenzionale, la regista e drammaturga spagnola Angélica Liddell mette in scena tabù, provocazioni e i suoi rituali di libertà

Un po’ sacerdotessa, un po’ sciamana, Angélica Liddell - regista e drammaturga spagnola - non si può dire che passi inosservata con i suoi spettacoli carnali, anticonvenzionali, a volte perfino scioccanti (ricordate “Prima lettera di San Palo ai Corinzi” o “Liebestod”?). Ed ora eccola che ritorna, portandosi dietro il suo mondo fatto spesso di azioni estreme (dall’autolesionismo alla masturbazione), in cui la provocazione però non è mai fine a se stessa e il teatro diventa un rituale di libertà. Una poetica forte quella di Angélica Liddell - già Leone d’argento alla Biennale di Venezia nel 2013 -, che sarà all'Arena del Sole di Bologna con “Caridad. Un’approssimazione alla pena di morte in 9 capitoli” (15 e 16 aprile, produzione Ert, Luca Sossella Editore pubblica il testo).

 

Nel 1993 nasceva l’Atra Bilis Teatro e da allora ha creato più di 20 produzioni. Ogni volta i suoi lavori vengono definiti scandalosi o provocatori: cosa è il teatro per lei?
«Il teatro non significa niente. Non mi piace il teatro, inteso così, come teatro. Non ci vado nemmeno. Le arti viventi mi annoiano. Ciò che ha senso per me è la ricerca della bellezza e la liberazione dei demoni interni. Sono interessata al rituale. Non cerco scandalo o provocazione, come la stampa. Cerco, come Annie Ernaux, il rischio spirituale».

 

Come nascono i suoi lavori? “Caridad”, per esempio, da quale intuizione nasce?
«Sto costruendo un unico grande spettacolo in tutta la mia vita, da quando ho iniziato. Ogni opera è un capitolo che ha a che fare con le mie ossessioni, i miei desideri, un bisogno vitale di raccontare una storia per non morire, come in “Mille e una notte”. Ho bisogno di raccontare. Ho bisogno di trasferire la guerra interna in uno spazio estetico. “Caridad” nasce dall’esigenza di equiparare l’arte al crimine, per difenderla nella prospettiva filosofica di Bataille. Chiedo pietà per l’arte, in un mondo in cui la poesia non esiste, un mondo in cui abbiamo dimenticato cos'è l'arte, per questo utilizzo storie di criminali».

 

Mostrare in scena il male, la violenza, è sempre necessario? E perché?
«Perdono il male. Lo rubo alla realtà per restituirlo al mito, che è il luogo del riconoscimento. Parlo sempre del male dal punto di vista estetico. La violenza estetica è sempre una lotta contro la violenza reale. Metto l’estetica al di sopra della moralità, per difenderla dal puritanesimo che la società impone in ogni epoca. La letteratura sadiana è nata a Charenton, mentre Sade era in prigione, come protesta contro la rigidità della legge dello Stato. E come disse Sade, “Puoi sopportare la vita solo immaginando cosa intollerabile”. In ogni caso, il bisogno primario è la difesa dell’arte. Quando sacralizziamo il Male è per mostrare attraverso l’estetica e la bellezza il nostro disagio con il mondo reale. Per questo si parla di terrorismo della bellezza».

 

Ha sempre avuto interesse per tutto ciò che è borderline?
«Ho sempre avuto bisogno di raggiungere un certo limite, sì. Bisogna arrivare al limite per ottenere la conoscenza. Tanizaki scrive: “La gente vuole credere che siamo tutti buoni, non per compassione verso i deboli, ma per evitare la spiacevole sensazione di riconoscere il male dentro di noi”. Nell’arte solo l’immorale ci eleva intellettualmente, siamo uomini grazie alle ombre. Tuttavia, la morale, l'appropriato, il benintenzionato, il sociale, ci uniforma nella stoltezza».

 

L’empatia con il crimine come si concilia con la compassione?
«In “Caridad” la vittima è il criminale stesso. Voglio mettere il pubblico di fronte a conflitti estremi, alla loro capacità di misericordia e di perdono».

 

Il crimine e l'arte non sono così diversi
«L'origine delle loro azioni ha a che fare con l’irrazionale, con una discrepanza con il mondo della ragione. Entrambi si manifestano con la stessa sensazione di libertà».

 

Che rapporto ha con il Cristianesimo?
«Mi considero cristiana per il tipo di educazione che ho avuto e l’influenza de “La Bibbia” è stata fondamentale nella mia vita, mi ha educato poeticamente. Il cristianesimo pone dilemmi importanti e rivoluzionari, ad esempio in termini di perdono. “Beati coloro che sono perseguitati in nome della giustizia”: totalmente radicale».

 

Ricordo che a Vicenza, nel 2015, ci furono delle proteste dopo “Prima lettera di San Paolo ai Corinzi”. Le sono capitate situazioni simili in altri Paesi?
«Mi sono dovuta incamminare con la protezione della polizia dal teatro all’hotel, a causa delle minacce di gruppi ultracattolici, fuori dal teatro, che non sapevano nemmeno di cosa parlasse il mio spettacolo. Il pubblico ha applaudito. Queste manifestazioni di fanatismo si sono verificate solo in Italia».

 

Cosa è più irrazionale, il perdono o la vendetta?
«Entrambi sono motori della tragedia. Quando metto in scena il perdono o la vendetta lo faccio dalla prospettiva mitica, pre-razionale. “Caridad” si basa su tre pilastri: Bataille, il Cristianesimo e tragedia greca, perdono e vendetta sono la loro essenza».

 

Gesù ama ladri e prostitute
«Il cristianesimo è sovversivo. L’influenza del cristianesimo non dipende dalla Chiesa ma dalla sua filosofia trasgressiva. La nostra fragilità è la nostra Chiesa. La nostra sofferenza è la nostra Chiesa».

 

In “Caridad” cita Beckett, Carroll, Godard, Sade. E Pasolini. Sovversivo anche lui?
«Pasolini è un riferimento fondamentale nel mio lavoro e nel mio vita. Un faro. Mi aiuta a ricordare cosa era l'arte e il Pensiero».

E le pecore in scena fanno riferimento alla simbologia cristiana?
«I primi test della ghigliottina francese furono fatti con agnelli vivi, poi su umani. L’immagine delle teste degli agnelli, caduti in nome della rivoluzione, dei diritti, dell'illuminismo, fondamenti della nostra società moderna, ho pensato che fosse un “agnus dei” magnifico».

 

Sta già lavorando ad un nuovo spettacolo?
«Sì. Sto scrivendo “Voodoo”. Voglio testare il capacità magica di un palcoscenico come luogo delle maledizioni. Ed è anche la messa in scena del mio funerale».

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