Se volete sentirli dal vivo non c’è che l’imbarazzo della scelta: magari gli Acid Arab sono la scusa giusta per andare a Londra giovedì prossimo (l’appuntamento per il 16 è al Fabric). Oppure a Stoccolma (18 marzo), Montpellier (7 aprile), Anversa (8 aprile). Il 15 maggio sono all’Arca di Milano, a fine luglio a Siracusa per l’Ortigia Sound System. Poi ricominceranno il giro del mondo che li ha portati, solo nell’ultima tournée, a Goa, Nuova Dehli e Bangalore prima di varie tappe in Francia e Germania. «Ma i Paesi dove di amano di più sono Spagna e Turchia», spiegano in un podcast di Radio France International Hervé Carvalho e Guido Minisky, i due fondatori di questo famoso collettivo franco algerino.
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Dove c’è club culture ci sono loro, dal vivo o in dj set: in dieci anni di attività la “techno world music” del progetto Acid Arab, nato a Parigi, ha conquistato il mondo, portando anche nelle discoteche il messaggio di un possibile mix musicale, e quindi culturale, tra tradizioni orientali e occidentali. L’intuizione di base, che ha ispirato il nome del collettivo, è la somiglianza tra lo stato di trance di alcune tradizioni arabe e la ripetitività ipnotica della “acid house”.
In dieci anni, gli Acid Arab hanno partecipato a migliaia di show in cinquanta paesi di quattro continenti grazie ai loro due Ep (“Collection” per l’etichetta Versatile), e ai due album registrati per Crammed Discs (”Musique de France” nel 2016, seguito da ”Jdid” nel 2019). Il titolo della loro ultima fatica è un simbolo che pochi in occidente riconosceranno: “٣” è il segno arabo per il numero 3. Un album con dieci canzoni che spaziano dall’house a Bollywood, unendo musica elettronica e melodie orientali, un mix che permette contaminazioni di ritmi techno con il gasba algerino, un flauto di legno di rosa dal suono inconfondibile, i ritmi trance anatolici e il raï “bionico”. Sulle basi create dai cinque musicisti (oltre a Minsky e Carvalho i membri stabili del progetto sono Pierre-Yves Casanova, Nicolas Borne e il tastierista algerino Kenzi Bourras) si appoggiamo le voci di otto vocalist provenienti dal sud del mediterraneo: Wael Alkak, Cem Yıldız, Ghizlane Melih, Khnafer Lazhar, Sofiane Saïdi, Fella Soltana, Cheb Halim e Rachid Taha.
Punto di partenza del nuovo album è “Leila”, che in arabo vuol dire “notte” ma nel mondo della musica occidentale richiama un successo indimenticabile di Eric Clapton. La voce è dell’algerino Sofiane Saïdi, chiamato “il principe del rai 2.0”, già presente nel primo disco degli Acid Arab. È una canzone che parla di esilio, di un algerino che muore dalla voglia di ascoltare musica algerina e ubriacarsi e ballare con Leila, la notte… "Rachid trip" invece campiona la voce di Rachid Taha, un colosso della canzone magrebina scomparso nel 2018, che aveva già collaborato con gli Acid Arab e aveva registrato la sua parte anni fa. «Dopo una cena insieme gli avevamo proposto di cantare un po’ da crooner su una base elettronica e lui ci ha voluto provare, lo ha registrato sul telefono. Adesso abbiamo ripreso quella registrazione e l’abbiamo riutilizzata: siamo felici perché il figlio ha apprezzato il risultato, è un omaggio a un grande musicista».
«Il nostro progetto», ha spiegato Carvalho, «è nato da un viaggio in Tunisia che abbiamo fatto dieci anni fa. Guido e io siamo andati a suonare a un festival e lì è nata la prima fusione tra le nostre basi e la melodia araba. Suonando con gli altri lì al festival ci siamo resi conto che quel mix poteva dare qualcosa di interessante, di potente. E al ritorno a Parigi abbiamo cominciato a lavorarci». Ma perché citare il mondo arabo da parte di un duo che all'inizio univa solo radici portoghesi (Carvalho) e russe (Minski)? «Perché il mondo arabo era il cuore del progetto, il collante. Del resto in tutti i nostri dischi, in particolare in questo, non c’è solo una lingua araba ma tante, ci sono i dialetti di tanti paesi diversi, Algeria, Marocco, Siria…».
Il progetto è nato dopo un momento di grande apertura e curiosità che era stato interrotto bruscamente dal terrorismo: «Negli anni Novanta c’è stato un grande movimento di scambi, la scoperta di musiche turche, indiane, del mondo arabo nel senso più largo. Questo interesse si stava facendo strada tra gli amanti del vinile e della musica in generale, c’erano riedizioni e ristampe che cominciavano a toccare anche la club culture. Aggiungi il successo di quello che possiamo chiamare il "rai francese", con Cheb Khaled e dischi come "1.2.3 Soleils"… Poi con l’11 settembre tutto questo è evaporato, ma adesso si sta ricostruendo con altre basi». All’inizio Acid Arab era solo un gruppo Facebook «che doveva organizzare una festa intorno a questo tema musicale in un locale del Diciottesimo Arrondissement. Poi è diventato un appuntamento mensile, poi un genere musicale che abbiamo deciso di battezzare Acid Arab, e poi è diventato un gruppo musicale, un po’ naturalmente, un po’ per caso…».
Un gruppo che qualche settimana fa ha conquistato il teatro Olympia, il tempio della musica di Parigi, e lo ha trasformato per due ore in una discoteca gigante: «Un'esperienza esaltante, né noi né il pubblico volevamo finire», commenta Carvalho. «Alla fine abbiamo detto al pubblico: se volete seguirci venite coi noi, continuiamo in un altro locale… A emozionarci non era solo il fatto di suonare all’Olympia: eravamo particolarmente entusiasti perché finalmente, per una volta, a sentirci c’erano le nostre famiglie, che non ci seguono mai in tournée».