I ministri Anna Maria Bernini, e nella scorsa legislatura Renato Brunetta, hanno dato indicazione di riconoscere i titoli di studio nelle procedure concorsuali interne alla pubblica amministrazione. Proprio la neo ministra dell’Università ha parlato di maggiori opportunità nel mondo della ricerca e più spazio per coloro che hanno affrontato il percorso di dottorato. «Intendiamo valorizzare ricercatori e dottori di ricerca sia in andata dall’Italia che di ritorno verso il nostro Paese», ha scritto in una nota del 17 febbraio scorso.
Purtroppo, però, la realtà è diversa. Nella pubblica amministrazione, dalla Sanità alla Difesa, dal mondo della scuola a quello dell’Economia, chi vince un concorso per il dottorato viene visto, molto spesso, come un problema. Il messaggio è che il titolo serva a poco. Le testimonianze raccolte sono molteplici ma molti dottori di ricerca assunti non possono esporsi per paura di ritorsioni.
Alla base ci sono due questioni: la prima riguarda l’aspettativa che permette ai dottorandi di studiare lontano dalla pubblica amministrazione per 3-4 anni e questo non è sempre è gradito da alcuni dirigenti; il secondo riguarda il PhD come massimo titolo accademico che mette in crisi una organizzazione che riconosce esclusivamente il titolo magistrale o i master. Un cane che si morde la coda, se si considera che lo Stato spende circa 100 mila euro per formare un dottore di ricerca che una volta tornato dopo l’aspettativa non può mettere a disposizione le competenze acquisite.
Non solo, quindi, i dottori di ricerca rischiano di non avere posti riservati nei concorsi ma si vedono sottoutilizzati e demansionati poiché non vi sono normative che li tutelino. Un ulteriore disincentivo che contribuisce a fare dell’Italia il fanalino di coda in Europa nella classifica dei dottorandi (Germania 201.800, Spagna 90.755, Francia 66.901, Polonia 39.269, Grecia 30.671, Italia 29.480. Fonte: Openpolis, 2019). In media, solo il 3,75% degli studenti iscritti a un segmento di istruzione terziaria frequenta un dottorato di ricerca. I valori più alti si registrano in Lussemburgo (11,53%), Repubblica Ceca (6,78%) e Finlandia (6,2%). In fondo, i Paesi Bassi (1,76%), l’Italia (1,52%) e Malta (1,1%).
Un’azione di tutela per i dottori di ricerca della pubblica amministrazione la possono promuovere organizzazioni come la Sidri (Società italiana del dottorato di ricerca) e l’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia), sottoponendo alla politica alcune soluzioni. È necessario agevolare, ad esempio, piani di mobilità per far circolare i dottori di ricerca, già dipendenti pubblici, tra i vari settori della pubblica amministrazioni allo scopo di valorizzarne al meglio le competenze.
Bisognerebbe poi prevedere che nei passaggi tra aree e fasce retributive le pubbliche amministrazioni assegnino un valore superiore al titolo di dottore di ricerca. Occorrerebbe poi garantire, alla fine del percorso e col titolo acquisito, la ricollocazione dei dottori di ricerca nelle aree della pubblica amministrazione affini all’indirizzo scientifico del PhD. Prevedere poi posti riservati sia nei concorsi interni sia nei corsi di formazione ad elevata specializzazione organizzati dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, secondo le aree tematiche di competenza. Si tratta di punti essenziali per contribuire alla valorizzazione del titolo, utili a facilitare i processi di modernizzazione della macchina pubblica.