Apartheid. Omofobia. Misoginia. In una serie di scatti su identità e razzismo l’artista racconta il proprio io, il Sudafrica e il mondo

L’autoritratto con violenza di Muholi

Si chiama “Somnyama Ngonyama” (Ave, Leonessa Nera) la serie che Muholi presenta al Mudec puntando la macchina fotografica verso di sé. In queste fotografie infatti c’è sempre e solo il suo volto, ripetuto come una cantilena dal sapore amaro, ma in realtà si scorge la rappresentazione di un tempo scandito, quello che l’umanità ha passato e passa nel segno di sessismo e razzismo.

 

Muholi infatti nasce in Sudafrica - nella township Umlazi nel 1972 - in pieno Apartheid e nonostante nel 1994 il regime sia stato abolito, il riverbero si sente ancora oggi e la comunità nera, come quella LGBTQIA+, sono ancora in pericolo. E allora ecco il suo busto e la sua testa bloccati da copertoni di biciclette, pratica usata negli anni ’80 in Sudafrica per impedire alle persone di fuggire mentre venivano bruciate vive. Anche le fascette che in un’altra opera vediamo applicate su testa e collo e spalle di Muholi erano strumento di costrizione usato dalla polizia.

 

Ogni oggetto che usa acquista una dolorosa ottica metaforica che scavalca il nostro primo sguardo, quasi divertito. Come in quei guanti neri che ricoprono quasi interamente il suo corpo nel lavoro dal titolo “Phila” (Vivere): sono gonfi di quell’aria che respiriamo e che ad alcuni è negata e quel lattice usato in ambienti sanitari è il simbolo delle cure mediche cui la comunità queer spesso non ha accesso e della condizione di lavori umili e manuali cui la comunità nera è costretta. In altre pose l’artista rivendica le acconciature africane vietate nelle scuole pubbliche del suo Paese o si ritrae rifacendosi alla Statua della libertà. Ogni foto è un piccolo racconto (e ce ne sono davvero tanti) che cammina sulle gambe di incredibili contrasti cromatici del bianco-nero. L’unica definizione che Muholi accetta è quella di Visual Activist (così infatti si chiama la mostra): ha rinunciato al nome Zanele perché in Zulu, sua lingua madre, è femminile.

 

Non vuole connotazioni di genere, forse perché i tratti distintivi portano a istanze di certezza, il germe della violenza che ha subito per tutta la vita, anche professionale: nel 2012 un gruppo di persone irrompe nel suo studio e distrugge gran parte dei lavori che aveva realizzato fino ad allora. Dopo una prima fase di cedimento psicologico decide quindi di diventare soggetto dei suoi scatti, come forma di auto-guarigione ma soprattutto perché «non possiamo fare affidamento sugli altri per sentirci rappresentati in maniera adeguata», scrive Muholi. «Tu sei importante. Nessuno ha il diritto di danneggiarti per la tua razza, per il modo in cui esprimi il tuo genere, o per la tua sessualità perché, prima di tutto, tu sei».

 

L’esposizione è curata da Biba Giacchetti e sarà visitabile fino al 30 luglio negli spazi di Mudec Photo, Milano.

 

LUCI
Durante l’annuncio di Agrigento capitale italiana della cultura 2025, il Ministro della Cultura ha detto che dal 2024 accanto alla capitale del Libro e alla capitale della Cultura, avremo anche la capitale dell’arte contemporanea, che si nominerà ogni anno. Questo settore in Italia ne avrebbe bisogno, speriamo che il Governo faccia sul serio.

 

E OMBRE
Sotheby’s lancia l’asta NFT Natively Digital: Glitch-ism. L’artista Patrick Amadon, che avrebbe dovuto farne parte, fa notare che tra tutti gli artisti in vendita non c’era nemmeno una donna. La casa d’aste si scusa, la annulla e promette di rimediare. Purtroppo la situazione è ancora questa.

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