Pubblicità
Inchieste
aprile, 2023

Si scrive merito, si legge reddito. La scuola italiana rafforza le disuguaglianze

Dopo anni di tagli e mancati investimenti, il sistema d’istruzione ha perso la sua funzione di ascensore sociale. Ed è diventato lo specchio dei divari che frantumano la società. Che neanche il Pnrr riesce a livellare

Dopo anni di mancata manutenzione l’ascensore si è rotto. In Italia chi nasce in una famiglia povera e con un basso livello di istruzione nella maggior parte dei casi muore nelle stesse condizioni. È la trappola della povertà educativa che la scuola non riesce più a contrastare. Scarse possibilità economiche limitano l’apprendimento, mancate opportunità di studio generano esclusione sociale, quindi povertà materiale.

 

Lo dimostrano gli ultimi dati disponibili di Eurostat 2020: il 53 per cento dei minori a rischio povertà o esclusione sociale ha genitori che non hanno il diploma. Il 10 per cento ha genitori laureati. Anche da un’analisi dei risultati delle prove Invalsi del 2022, test che valutano i livelli di apprendimento degli studenti sul territorio nazionale, si traggono le stesse conclusioni: più il punteggio delle prove è alto, più è elevato il livello sociale, economico e culturale delle famiglie in cui gli studenti sono cresciuti.

 

Ma che merito ha il più bravo della classe se vive in una casa in cui si parla correttamente l’italiano, ha uno spazio adatto a studiare, gli strumenti per farlo e familiari disposti a spiegargli quello che non ha capito durante le lezioni? La scuola invece di essere equa, di garantire a tutti le stesse opportunità di conoscenza, certifica le disuguaglianze. «Basta pensare alle spese che ogni famiglia deve affrontare per il materiale scolastico. E ai costi dei viaggi di istruzione», sostiene Aurora Iacob, del sindacato studentesco Rete degli studenti medi: «Chi è in difficoltà resta senza libri, non va in gita, non si può permettere le ripetizioni. Ottiene risultati più bassi e per questo viene considerato inferiore. Si demotiva e abbandona il percorso formativo con più facilità. La scuola dovrebbe offrire a tutti gli stessi strumenti, invece non lo fa». Perché i divari che frantumano il sistema educativo sono gli stessi che dividono l’Italia e sono intrecciati tra loro.

 

A impedire che le pari opportunità siano un diritto di tutti non ci sono solo le differenze di classe ma anche le disparità tra il Nord e il Sud del Paese, tra i centri e le periferie, tra il pubblico e il privato. Divari, anche di genere, che, come sottolinea Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum disuguaglianze e diversità, sono destinati a crescere se non si inverte la rotta: «La scuola dovrebbe tornare a essere una priorità della politica perché è il presupposto per lo sviluppo. Invece, da anni gli investimenti nella pubblica istruzione sono inferiori alla media europea: nel 2019, ad esempio, l’Italia ha speso circa 70 miliardi di euro per l’istruzione. La Germania più di 150, la Francia quasi 128 miliardi. I tagli impediscono alla scuola di svolgere la funzione di ascensore sociale che le è propria. E favoriscono sotto traccia anche la crescita degli istituti privati». Che rispondono alle esigenze che il pubblico non è più in grado di soddisfare. Ma solo per chi se le può permettere.

 

«Crescono le disuguaglianze anche all’interno dello stesso comune: da un lato ci sono i ragazzi che vanno alla scuola pubblica che ha abbassato le pretese pur di sopravvivere, dall’altro quelli che accedono alle paritarie e vivono contesti privilegiati e iper-protetti. Due mondi che non comunicano tra loro», spiega Pasqualino Costanzo, educatore di Cantiere Giovani, non profit che promuove l’inclusione sociale nell’area metropolitana di Napoli dove la dispersione scolastica sfiora il 23 per cento mentre nel resto del Paese è attorno al 12. In una regione, la Campania, in cui i risultati delle prove Invalsi sono tra i peggiori d’Italia. «Creiamo il tempo pieno dove non c’è», dice Cinzia Festa, la responsabile del progetto “Cantiere dei pirati”, a supporto dell’attività scolastica: «Prendiamo in gestione le casette dei custodi che ci sono quasi in ogni scuola, ma di solito sono abbandonate, e le trasformiamo in spazi polifunzionali dove gli studenti possono trascorrere i pomeriggi per fare i compiti e altre attività a favore dell’integrazione. Perché è provato che questi servizi non sono solo fondamentali per la conciliazione dei tempi di vita privata e di lavoro dei genitori ma costruiscono anche il diritto dei minori di accedere a percorsi di studio educativi che livellino le disuguaglianze».

 

Negli istituti del Sud mancano le palestre, non ci sono le mense, solo il 18 per cento delle scuole ha il tempo pieno, contro il 48 per cento del Centro-Nord. Tanto che – emerge da un recente studio di Svimez – gli studenti del Mezzogiorno frequentano la scuola così tante ore in meno che è come se perdessero un anno di formazione rispetto ai loro coetanei del centro-nord. La scuola pubblica si sta trasformando nel contenitore di chi non ha un’alternativa, mentre gli istituti paritari accolgono gli altri: i figli di chi cerca il tempo pieno per conciliare la cura con l’occupazione, crede nell’importanza di studiare le lingue straniere, del fare attività fisica per accrescere il benessere individuale.

 

Così le differenze di opportunità, determinate dalle condizioni di partenza e non dal merito, diventano strutturali. Balzano subito agli occhi di chi percorre la strada che, senza nessun riguardo per la divisione tra i centri abitati, attraversa l’area nord della città metropolitana di Napoli: basta uno sguardo veloce su Google maps per notare l’alta concentrazione di scuole private che c’è tra i Comuni di Frattamaggiore, Frattaminore, Cardito e Casandrino, zona conosciuta anche come il «diplomificio d’Italia». E di strutture ospitali pronte a accogliere gli studenti che arrivano dal resto del Paese per dare gli esami. Ma serve percorrere a piedi quella strada dai marciapiedi dissestati per vedere come accanto a casermoni grigi e a volte anche dall’apparenza fatiscente – le scuole pubbliche – spuntino edifici colorati, dall’aspetto invitante: le scuole paritarie non statali che attraggono iscritti, dai tre anni fino al diploma. Probabilmente così gradevoli anche grazie ai finanziamenti che ricevono dallo Stato, triplicati negli ultimi 10 anni: dai 286 milioni del 2012 ai 626 dell’ultima legge di Bilancio.

 

Un trend positivo inverso a quello che caratterizza l’istruzione pubblica. Che dalla crisi del 2008 e con la riforma Gelmini, di cui l’attuale ministro Giuseppe Valditara era stato relatore al Senato, sopporta un carico di tagli supplementari. Come spiega Salvatore Cingari, ordinario di storia delle Dottrine politiche all’università per stranieri di Perugia, «in quegli anni prende forma l’idea, ripresa dal governo oggi, che i docenti debbano valorizzare il merito per contrastare il lassismo e l’egualitarismo post-sessantottino, così da consentire a chi è bravo di emergere, senza riguardo per le condizioni sociali e senza aspettare chi rimane indietro. Smantellando il carattere democratico e emancipativo della scuola pubblica. Anche perché ciò che è meritevole è relativo e viene stabilito dai rapporti di potere: ad esempio, oggi è meritevole chi risponde alle esigenze delle imprese, chi sopporta lo stress. Ma siamo certi di volere una scuola selettiva che esalti la competizione invece di uno spazio per l’apprendimento che favorisca la cooperazione e insegni a pensare che ogni persona ha il proprio diverso valore?».

 

L’idea che un merito supposto, calato dall’alto, indirizzi le vite delle persone era già presente nel filosofo Giovanni Gentile (e prima di lui in Benedetto Croce) la cui riforma varata nel 1923 quando era ministro della pubblica istruzione nel primo governo Mussolini, puntava a fare della scuola il luogo di formazione della classe dirigente. Di cui potevano fare parte solo coloro che avevano superato l’esame di ammissione necessario per frequentare i licei classico e scientifico, gli unici a dare accesso all’università. «Generando un meccanismo di differenziazione sociale basato sulla diversificazione dei percorsi scolastici, destinato a perpetuare se stesso perché superavano l’esame soprattutto gli studenti che provenivano da contesti privilegiati», conclude Cingari, autore del libro “La Meritocrazia” che dimostra come il termine abbia una connotazione negativa fin dalla sua invenzione, con il romanzo del sociologo Michael Young in cui veniva utilizzato per descrivere una società distopica in cui la classe dirigente è al governo perché lo merita in quanto più intelligente secondo i test scientifici. Il risultato è una nuova società di casta in cui la maggioranza, umiliata ancora più sottilmente, alla fine si rivolta.

 

A 100 anni dalla riforma Gentile il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha l’obiettivo di risanare le disuguaglianze che spaccano il Paese, tra nord e sud, centro e periferia, aree interne e aree urbane, così tanto che la riduzione dei divari territoriali è una delle tre priorità che attraversa tutto il Piano. Perché per accrescere la mobilità sociale in Italia, che è tra le più basse d’Europa, serve livellare le disparità di partenza. Quella educativa in particolare, a cui è dedicato anche un intervento specifico, l’investimento 1.4 della quarta missione, a cui sono destinati 1,5 miliardi di euro. La prima tranche da 500 milioni è stata assegnata a 3.198 istituti scolastici. Ma, sottolinea Andrea Morniroli, «è mancata l’individuazione di un set di indicatori aggiornato e condiviso e il coinvolgimento delle comunità educanti. La povertà educativa non si contrasta con i finanziamenti a pioggia calati dall’alto attraverso bandi di un anno, due o sei mesi. Si devono individuare le aree critiche e attuare interventi che accompagnino i progetti per archi di tempo che permettano di agire sui fenomeni che riducono la dispersione esplicita – chi abbandona – e implicita, cioè chi pur frequentando non acquisisce le competenze di base. In modo che gli istituti siano messi al centro di politiche non solo educative ma anche di rigenerazione sociale. Anche perché la scuola pubblica, seppur frantumata, resta ancora in molte zone d’Italia il punto di contatto tra la popolazione e la Repubblica».

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità