Sono giorni molto intensi per Neri Marcorè, giornate di studio e anche di soddisfazioni, che arrivano dal teatro e dal grande schermo, in entrambi i casi applaudito dal pubblico che lo ama e lo segue da anni. «La televisione non è prevista in questa fase della mia vita. Preferisco dedicarmi allo spettacolo dal vivo e al cinema, ho già abbastanza impegni», racconta dalla sua casa romana l’attore e regista. E fra poco inizierà anche il montaggio del suo primo film da regista. «Ecco, vediamo come andrà, ma se dovessi immaginare il mio futuro mi piacerebbe proseguire su quel filone».
Intanto, da poche settimane c’è al cinema il film di Walter Veltroni, “Quando”, in cui recita la parte del protagonista, e c’è il teatro. In questi giorni, infatti, è in scena al Carcano di Milano con “La buona novella” di Fabrizio De André, drammaturgia e regia di Giorgio Gallione, uno spettacolo di teatro-canzone che intreccia i brani del grande cantautore genovese con i testi narrativi tratti dai Vangeli apocrifi (una produzione Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Carcano, Fondazione Teatro della Toscana, Marche Teatro, fino al 23 aprile). La nostra chiacchierata parte da qui.
Marcorè, dopo “Quello che non ho”, spettacolo di qualche anno fa sempre diretto da Giorgio Gallione, torna a Fabrizio De André. Una sua vecchia passione?
«Non tanto vecchia in realtà. “Quello che non ho” andò in scena per tre stagioni, dal 2015 al 2018, e intrecciava i brani di De André con i testi di Pasolini. Poi ci fu “Incontro in musica fra Faber e Gaber” nel 2019-2020 e ora “La buona novella” chiude il cerchio. Anni prima ero andato in scena anche con “Un certo Signor G.” e così ho proseguito su quel filone di teatro civile, pezzi non scritti per il teatro ma in cui c’era un racconto, che parlava di socialità, di comunità, di uomini, di politica nel senso più alto del termine».
De André e Gaber: era questa la musica che amava da ragazzo?
«Li ho scoperti negli anni Ottanta, li ho apprezzati crescendo, perché da bambino ascoltavo musica leggera, quella che mandavano alla radio e che piaceva a mia madre. Poi, verso i 10-11 anni, toccò a Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, Lucio Dalla. E a 18-19 anni Giorgio Gaber e Fabrizio De André: avevo iniziato un percorso di conoscenza in cui davo maggior peso alla musica, più che al testo. Con gli anni ho un po’ riequilibrato il rapporto musica-testo. Per esempio De André in “Arrangiamenti Pmf” rivestiva la musicalità di altri colori e mi faceva scattare la scintilla».
Perché è così importante ancora oggi ascoltarlo?
«Il punto non è tanto ascoltare De André. “La buona novella” è il suo primo concept album in cui dà voce a Gesù, Maria, Giuseppe, Tito il ladrone, il coro delle madri, un falegname, il popolo, brani narrativi tratti dai Vangeli apocrifi. Quell’album uscì nel ’70, in piena rivolta studentesca, e i compagni lo rimproverarono, un laico che affrontava un tema così anomalo... Ma per lui Cristo era il più grande rivoluzionario. Diceva De André: “Compito di un artista credo sia quello di commentare gli avvenimenti del suo tempo, usando però gli strumenti dell’arte: l’allegoria, la metafora, il paragone”».
E lei è d’accordo con questa frase?
«Certo, l’arte deve innescare domande in chi ascolta».
De André diceva anche che «la lotta contro l’autorità, il potere e i suoi abusi, va combattuta ogni giorno individualmente», concorda anche su questo?
«Da soli oggi si fa poca strada. Ci si può anarchicamente ribellare, ma poi bisogna unirsi. I movimenti pacifisti o quelli che hanno combattuto le tirannie, le mafie, erano sempre movimenti collettivi. Certo, si parte sempre da una coscienza individuale, ma deve diventare collettiva».
Se si svegliasse fra 30 anni, come Giovanni, il protagonista del film di Veltroni, “Quando”, che interpreta al cinema, cosa vorrebbe vedere?
«Vorrei vedere un pianeta meno inquinato, con meno plastica, più pulito, vorrei un maggior rispetto per le piante. Basta sfruttare le risorse del pianeta senza porsi dei limiti, inquinare l’aria, le falde acquifere. L’emergenza climatica mi sta molto a cuore, credo sia il grande problema di oggi, purtroppo non ho molta speranza per il futuro. Il capitalismo ha già fatto troppi danni».
Cinema, teatro, tv, doppiaggio...in quale ruolo si sente più a suo agio?
«Mi piace variare, soprattutto fra cinema e teatro. Mi piaceva molto anche la televisione, lavorare con Dandini o Guzzanti, ma in questo momento non mi attira molto, sono più attratto dal cinema e dal teatro. Difficilmente comunque faccio una sola cosa perché poi rischio di annoiarmi. In autunno per esempio uscirà il mio primo film da regista...».
Titolo?
«Si intitola “Zamora”, è tratto dal libro di Roberto Perrone, scomparso da pochissimo. Racconta la storia di Walter Vismara, che dopo la chiusura della fabbrica di Vigevano in cui lavorava si ritrova in un’azienda milanese al servizio di un imprenditore moderno con il pallino del calcio. Walter gioca per non perdere il posto ma viene preso di mira e ribattezzato “Zamora” con riferimento al portiere spagnolo degli anni ‘30. Alla fine Walter escogita un piano per vendicarsi. Tra poco inizieremo il montaggio e in autunno uscirà il film».
Insomma tutto nasce dalla lettura di un libro. A proposito, per dieci anni ha condotto su Rai 3 “Per un pugno di libri”: è ancora oggi un lettore appassionato?
«Ho sempre amato molto la lettura, sin da piccolo. Quando ce l’hai la passione per la lettura è come un virus da cui non si guarisce mai. Sicuramente Roberto Perrone è un autore che mi piace, “Un odore di toscano” è un romanzo che ho amato molto. Poi leggo tutto di Fabio Stassi, e in genere molti italiani. Ogni tanto qualche scrittore sudamericano, da Gabriel García Marquez a Jorge Amado. Il fatto di far parte di giurie e premi letterari mi permette di rimanere aggiornato, una piacevolissima costrizione, dal premio Strega ad “Alassio Centolibri. Un autore per l’Europa”, dal Premio Dessì in Sardegna al Marino Moretti a Cesenatico».
E trova anche il tempo per fare altro, scommetto…
«Quando posso gioco soprattutto a tennis, e poi a ping pong e a calcio, ma dipende dai periodi. In questo momento, per esempio, faccio più fatica. Però quando ho un po’ di tempo libero suono anche la chitarra con gli amici, e poi mi piace viaggiare, fare escursioni».
E i figli cosa dicono di questa vita così piena del papà?
«Ora sono grandi (23 anni Arianna, 21 i gemelli Elia e Nicola), ma quando erano piccoli mi seguivano spesso nei miei viaggi di lavoro. Nel 2010 abbiamo trascorso un mese intero a Parigi, dovevo girare un film e mi seguì tutta la famiglia. Abbiamo fatto cose belle tutti insieme. Ora i miei figli hanno intrapreso la loro strada, è giusto così».