intervista
Luigi Lo Cascio: «Il mio mostro ha i miei occhi»
Umorismo, fantasia feroce, senso della morte. L’attore siciliano ha realizzato una sorprendente raccolta di racconti brevi, “Storielle per granchi e scorpioni”. Che assomigliano ai ritornelli di una canzone. «La Distrazione e la Consolazione sono esperienze di conoscenza che creano la nostra identità»
Luigi Lo Cascio ha scritto una sorprendente raccolta di 33 racconti brevi che, dopo averli letti, ti restano in mente come i ritornelli di una canzone: ti ritrovi a canticchiarli senza accorgertene. Ma con una sostanziale differenza: la canzonetta non chiede niente, spesso se ne va, mentre queste piccole storie no. Loro restano e scavano, costringendoti, con una strana apparente allegrezza, a pensare. “Storielle per granchi e scorpioni” (Feltrinelli) è un contenitore di umorismo e fantasia feroce, una catena di novelle con una caratteristica che le lega: l’anomalia. L’autore dà voce a ogni cosa, viva o inorganica, giocando con la surrealtà, una libertà che gli concede spazio all’esercizio filosofico.
Come è nata l’idea del libro?
«Non c’è stato un momento preciso in cui mi sono detto: ora scrivo un libro. Io scrivo sempre, accumulo suggestioni, idee, esperienze, confessioni. Però c’è stato sicuramente un momento in cui ho pensato: per scrivere non ho bisogno di chissà quale preparazione. Durante la pandemia scrissi un raccontino surreale come risposta a un messaggio di un amico e mi accorsi che non era male, che forse avrei potuto fare, di quell’esperienza istantanea, un percorso narrativo. E così ho acuito i sensi, mi sono messo in ascolto e ho fatto in modo che la mia vita mi suggerisse molti inizi. Questo libro potrei definirlo addirittura un diario di bordo, ma scritto con criteri diversi».
Come mai ha deciso di chiamarle “storielle”?
«Avrei potuto chiamarle racconti, certo, ma ho voluto con questo termine giocosamente sminuirle. Come le dicevo le ho scritte di getto, anche se poi ci sono tornato sopra più e più volte, e le vedo così, come storielle umoristiche che possono anche essere lette ad alta voce».
Capisco cosa intende, ma poi quando si leggono sono tutt’altro che “storielle”. I suoi racconti, mascherati da favole o fiabe, sono pieni di intelligenza. Un tema che ho ritrovato spesso è quello della morte, o meglio, della fine.
«Sì, la morte è una costante; non come fine di qualcosa, ma come una delle tante possibilità. Non vorrei che il lettore si spaventasse, però...(ride)».
Non deve, perché lei tratta la morte come un evento qualsiasi, e lo fa così bene da avermi tolto la paura, per un po’. Un’altra riflessione che mi ha molto incuriosita è quella sul ruolo della distrazione e della consolazione. Per me la distrazione è sempre stato un fatto negativo. Eppure, leggendo il racconto “Il giardiniere”, ho percepito una sua fascinazione.
«Esistono le piccole distrazioni, quelle che ti allontanano da ciò che invece devi affrontare. E c’è la Distrazione con la sua compagna Consolazione. Sulla prima ho un giudizio negativo, è un palliativo inutile. Un travisamento della propria vita. La seconda invece è l’essenza della vita: il lavoro, il sentimento amoroso, la lettura, la scrittura. Una serie di fatti o emozioni che sostengono, che consolano. Se non c’è l’amore ci si sente soli, senza lavoro si può essere angosciati. Noi siamo fatti delle nostre distrazioni. Io sono fatto della cosa che mi distrae di più. E sono fatto di ciò che mi consola. La Distrazione e la Consolazione sono esperienze di conoscenza. Cosa siamo senza di loro? Forse niente. Loro creano la nostra identità».
Lei scrive per essere letto?
«Io scrivo per me. Per scoprire dove mi troverò, chi sarò dopo aver scritto. Per me la scrittura è un inseguimento, una corsa. E quando si corre non si corre per qualcun altro, ma per scappare o per raggiungere qualcuno. Certo, poi, una volta terminato il “viaggio” io mi sono chiesto: è una roba solo mia? Se la risposta fosse stata sì, mi sarei tenuto tutto in un cassetto, o l’avrei buttata nella spazzatura».
Invece ha pensato che queste storie potessero riguardare tutti.
«L’ho pensato, e in quel momento ho lavorato per renderle leggibili: interessanti, musicali».
E lo sono. Lei ha addirittura scritto dei racconti che, mi azzardo a dire, sembrano poesie.
«Un mio racconto in effetti inizia con due settenari, e segue con una serie di endecasillabi».
Parla di “Se fossi stata blu!”, un racconto meraviglioso. Mi sbaglio o lei affronta anche il grande tema del perdono, per esempio nel primo racconto dove una mosca è accusata di aver mangiato un divano?
«Non direi che parlo del perdono, ma di un’ingiustizia che mi ferisce, quando la vedo attuata: identificare una persona, per tutta la vita, con un unico fatto occasionale. Appiccicare un’etichetta è una violenza assurda».
Nel racconto “La Stella Nera” scrive che ognuno di noi ha dentro di sé un mostro che lo identifica. Un mostro in carne e ossa. Qual è il suo?
«Il mio mostro non mi somiglia, ma ha i miei occhi. Ha la mia stessa paura».