il rapporto
Altro che bigotti, per gli italiani la famiglia è una questione laica
Nonostante i proclami identitari del governo e gli stereotipi sulle tradizioni religiose, nel nostro Paese un terzo dei figli nasce fuori dal matrimonio. Che si celebra sempre più con rito civile, invece che in Chiesa. Mentre i divorzi sono esplosi dopo la riforma
Mai così pochi bambini dal 1861, titolano comprensibilmente preoccupati i giornali. La crisi delle nascite sta precipitando l’Italia nell’inverno demografico con la prospettiva di ritrovarci, fra qualche decennio, al Paese che eravamo prima della Seconda guerra mondiale. Quaranta milioni o poco più. Questa crisi ci dice però che ancora più in crisi, se possibile, è la terna «Dio, patria, famiglia», assunta dall’attuale governo come motto identitario (Giorgia Meloni dixit, il 12 settembre 2022).
La prova? Dal 2002 al 2020 il numero dei nuovi nati è diminuito di quasi un quarto. Ma mentre quello dei figli di coppie sposate è crollato del 45,8 per cento, passando da 479.835 a 259.823, i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 148,5 per cento. Erano 58.363 nel 2002, sono diventati 145.069 nel 2020. Ormai ben oltre un terzo dei (pochi) bambini che l’anagrafe registra ogni anno nasce da coppie non sposate. Vent’anni fa non erano che il 10 per cento.
C’entrano anche gli immigrati, sicuro: che peraltro negli ultimi anni partecipano al calo demografico generale ancor più degli italiani. Ma la progressione è inarrestabile, e non manca di riflettersi anche sul sacramento cattolico conseguente alla nascita. Se nel 2002 il rapporto fra il numero di battesimi e quello delle nascite superava l’85 per cento, nel 2020 è sceso sotto il 70 per cento.
I dati contenuti nell’ultimo rapporto di Critica liberale sulla secolarizzazione, e tratti da fonti ufficiali (Istat e ufficio statistico della Chiesa, in questo caso), dicono tutto a proposito della direzione che abbiamo imboccato da anni. E considerando che un proprio contributo personale l’ha dato anche la presidente del Consiglio in persona, madre di una figlia nata fuori dal matrimonio, si può capire quanto sia profondo l’abisso fra la propaganda politica e la realtà del Paese. Che non risparmia nessuno. Neppure i politici che rivendicano la terna identitaria «Dio, patria, famiglia».
E che in ogni caso continua a essere a due facce. Nel 2018, per la prima volta dal 1929, cioè da quando esiste il Concordato fra lo Stato italiano e il Vaticano, il numero dei matrimoni civili ha superato quello dei matrimoni celebrati in chiesa. Sono stati 98.182 contro 97.596. Anche questo è un processo che va avanti da molti anni. Nel 2002 le coppie che si sposavano in Comune erano il 28 per cento; oggi sono più della metà. Ma se nel Centro Nord il rapporto fra matrimoni civili e religiosi è di tre a uno, al Sud è il contrario.
Fermo restano che dalla pandemia è arrivato un altro segnale. Nel generale calo dei matrimoni che si è verificato nel 2020, ovviamente per cause indipendenti dalla volontà degli sposi, la diminuzione più vistosa l’hanno registrata le cerimonie in chiesa. Costretti a rinunciare ai rituali e ai festeggiamenti legati per tradizione inviolabile al matrimonio religioso, non hanno però rinunciato a sposarsi davanti al sindaco rinviando la cerimonia religiosa.
Ma non aumentano soltanto i matrimoni civili. Ancora di più crescono le coppie di fatto, e la prova sta nei numeri dei figli nati fuori dal matrimonio. Il rapporto di Critica liberale segnala che hanno raggiunto il 10 per cento, ed è il triplo rispetto al 3,5 per cento del 2002. E pure qui basta affacciarsi in Parlamento, che è lo specchio del Paese, per verificare quanto la cosa sia diffusa fra gli eletti anche nei partiti di ispirazione cattolica.
Che d’altra parte il matrimonio, naturalmente quando c’è, sia sempre meno «finché morte non vi separi», è assodato. Dal 2015 il numero dei divorzi ha avuto un’impennata grazie a una riformina di quell’istituto. È bastato ridurre drasticamente l’intervallo temporale con la separazione per farlo aumentare mostruosamente. Nel 2016 si sfiorarono i 100 mila divorzi, più del doppio nei confronti del 2002. La frenesia si è poi ridotta. Ma comunque anche nel 2020, nonostante la pandemia che ha quasi paralizzato il funzionamento delle strutture giudiziarie, i divorzi (66.662) sono stati più numerosi del 60 per cento rispetto al 2002.
E se in quell’anno il rapporto fra i divorzi e i matrimoni celebrati non superava il 15 per cento, nel 2019, anno precedente al Covid, era arrivato addirittura al 53 per cento. Anche qui grazie ai modesti contributi dei nostri autorevoli leader politici che non si stancano di patrocinare la causa della famiglia tradizionale. Il fondatore e capo indiscusso di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha divorziato da Veronica Lario (ed era il secondo divorzio) nel 2013. A quel tempo il leader della Lega, Matteo Salvini, aveva già a sua volta consumato il divorzio dalla prima moglie. Secondo i dati dell’ultimo rapporto di Critica liberale sulla secolarizzazione, i casi di divorzio superano ormai stabilmente ogni anno il tetto dei 300 ogni 100 mila coppie coniugate: nel 2008 non raggiungevano quota 182.
E forse è normale, in un Paese alle prese con una crisi demografica epocale, che diminuiscano le interruzioni volontarie di gravidanza. Nel 2020 hanno toccato il record negativo di 66.413, meno della metà rispetto al 2002, con un tasso di abortività sceso per mille donne di età compresa fra 15 e 49 anni da 9,22 a 5,40.
Il calo non dipende evidentemente solo da questo. Ma neppure dall’obiezione di coscienza dei medici e del personale sanitario, che è diminuita anch’essa. E meno che mai, a quanto pare, dalla militanza antiabortista. Il rapporto di Critica liberale segnala che il Movimento per la vita ha smesso di pubblicare la relazione nella quale ogni anno presentava i numeri dei cosiddetti «centri di aiuto alla vita». Il dato certo è che dal 2018 pure tali centri sono in ripiegamento, avendo subito una netta diminuzione: in un solo anno sono passati da 342 a 243.
Sarebbe sorprendente, a questo punto, se gli apparati religiosi non denunciassero difficoltà. I preti sono sempre meno numerosi. Le nuove «ordinazioni» di sacerdoti sono diminuite dalle 502 del 2002 alle 283 del 2020, registrando una flessione costante e continua in due decenni. In una popolazione calante qual è la nostra, gli abitanti per sacerdote sono passati da 1.055 a 1.424. Il che significa che in diciotto anni sono spariti più di 12 mila preti. Per non parlare poi delle suore. La religiose censite nel 2002 erano 108.175, mentre nel 2020 arrivavano a malapena a 70.020. Trentottomila in meno.
Idem è accaduto per le scuole cattoliche. In tutta Italia erano 8.556 all’inizio del secolo, oggi sono 6.670. Quasi duemila hanno chiuso i battenti. In un Paese dove la crisi della natalità è anche la conseguenza della mancanza di strutture pubbliche, e la carenza dei nidi è in cima a questa lista, gli asili cattolici sono sempre stati numerosi. Ma anche questi sono diminuiti drasticamente. Nel 2002 ce n’erano 6.177; nel 2020 si sono ridotti a 4.755. Il calo è del 23 per cento. Le scuole elementari cattoliche si sono a loro volta ridotte da 1.261 a 983 (-22 per cento) e quelle secondarie da 1.118 a 932 (- 16,6 per cento).
Meno preti, meno suore, meno matrimoni religiosi, meno battesimi, meno prime comunioni… Perfino meno istituti. Questo però non vuol dire meno soldi. Il rapporto di Critica liberale punta il dito anche sulla spinosa faccenda dell’8 per mille cui L’Espresso ha dedicato un’inchiesta qualche settimana fa. Nel 2020 l’incasso delle somme provenienti dai contribuenti italiani ha raggiunto il livello più alto di sempre nonostante le preferenze realmente espresse per la Chiesa cattolica da chi paga le tasse siano risultate le più basse di sempre.
E questo è stato possibile grazie a un meccanismo assurdo previsto dalla legge del 1985 secondo cui tutto l’8 per mille viene ripartito percentualmente in base alle destinazioni decise dai contribuenti che compilano il modulo relativo nella denuncia dei redditi. E siccome il 70 per cento di chi decide di dare a qualcuno i propri soldi sceglie la Chiesa cattolica, anche i denari del 70 per cento di quanti hanno lasciato il modulo dell’8 per mille in bianco vanno alla Chiesa. La conseguenza è che con questa singola riforma del Concordato siglata quasi quarant’anni fa dal governo di Bettino Craxi nelle casse del Vaticano affluisce stabilmente dal 2011 più di un miliardo l’anno versato in gran parte a propria insaputa dai contribuenti italiani. Il totale, nel decennio 2011-2020, è di 10 miliardi e 314 milioni.
Dall’ultimo rapporto di Critica liberale esce dunque un’Italia molto diversa da quella che molti di noi hanno sempre immaginato, con lo stereotipo di una nazione fortemente legata alle proprie radici religiose dove i condizionamenti della Chiesa cattolica si riflettono anche sulle scelte politiche. Il contrasto fra quello stereotipo, infranto ormai all’inizio degli anni Settanta con la legge sul divorzio, e i vari comportamenti sociali è invece sempre più profondo. Con l’unico elemento di coerenza rappresentato dal finanziamento sempre più consistente del Vaticano con le tasse degli italiani. Anche se la politica, quasi tutta, non ne vuole prendere atto. Come se conoscesse sempre meno il Paese che governa. E forse è proprio così.