Cosa cerchiamo quando ci inoltriamo in territori sconosciuti? Esiste una cartografia dei sentimenti? Dalla città inventata da Vasilij Golovanov, verso luoghi immaginari e universali

Secondo Ryszard Kapuscinski, maestro dei reportage e re dei vagabondi, viaggiare era un’attività contro natura, a meno di essere costretti a mettersi in strada causa guerra, fame, siccità. Oppure perché si è curiosi. Ma in tal caso, cosa si cerca? Cosa vogliono vedere gli occhi di chi si inoltra in territori sconosciuti? Certo, si può voler incontrare altro da sé, oppure (ma un’ipotesi non esclude l’altra) confrontare i propri sogni e immaginario con la realtà. O se vogliamo: esiste una geografia dei sentimenti, poetica, e autori che di quella geografia amano parlare. Uno di questi è stato Vassilij Golovanov, scrittore, fotografo, giornalista russo, scomparso due anni fa all’età di sessant’anni.

 

L’esempio, impressionante per la sua bellezza, di questo tipo di viaggi è il suo “Verso le rovine di Čevengur”, pubblicato da Adelphi nella traduzione di Valentina Parisi (all’altezza della qualità del testo). Si dice spesso: lo spazio russo è diverso da quello europeo, vasto, pianeggiante senza limiti.

E il tempo russo? È considerato più lento di quello occidentale, e fermiamoci qui per dire due cose. La prima. Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, i poeti, gli scrittori, i filosofi dell’Impero zarista che volgeva verso la fine e poi della Russia sovietica appena nata si ponevano domande sulla collocazione “geoculturale” del Paese. Ne sono nati miti. Fra questi l'idea di uno spazio eurasiatico e il mito di un popolo delle steppe, gli sciti, ma anche utopie comuniste e anarchiche. Ecco, l’esplorazione di Golovanov e le sue peregrinazioni mettono a confronto quell’immaginario di un viaggiatore curioso e al contempo fedele alla propria memoria, con la realtà. E alla fine si ha l’impressione che il mondo raccontato riguarda noi tutti e non solo i russi.

 

Così viene narrata la spedizione verso la sorgente del Volga. Scrive Golovanov che «ogni sorgente è anche un’eredità, una promessa», parla dell’autenticità che fa bene all’anima e psiche perché il paesaggio dà l’impressione di essere fuori tempo, e cita «i vecchi intellettuali e gli anziani di campagna«, eredi «dell’antica cultura prerivoluzionaria». Nostalgia dei tempi che hanno preceduto i grandi sconvolgimenti e di cui vediamo oggi le ultime terribili conseguenze nella guerra in Ucraina? L’autore è morto prima che a Putin venisse in mente di invadere il Paese vicino, ergo, si tratta di qualcosa che viene prima della politica e che riporta ai bisogni difficilmente esprimibili, ma che si manifestano in quei viaggi in cui vogliamo immaginare realtà che non abbiamo vissuto. O se vogliamo: è nostalgia delle esperienze che non abbiamo fatto. O forse che stiamo facendo ma che avremmo voluto fare in un altro tempo. Vale non solo per la Russia: basta imbarcarsi su un battello sul Rio delle Amazzoni in Brasile, visitare una comunità locale e fermarsi per qualche giorno, per avere sensazioni simili. E poi, ogni fiume è metafora della vita che scorre e della nostalgia di purezza delle origini.

 

Si è detto utopie. Golovanov ne esplora diverse e affascinanti. L’una, è quella di un linguaggio poetico che potesse rimodulare le parole, renderle simili al suono degli uccelli e qui segue un viaggio nell’idioma di un grande poeta, uno dei padri del futurismo russo Velimir Chlebnikov, innamorato dell’Asia, della Persia come fonte immaginaria delle parole e dei suoni appunto.

 

E in un capitolo sugli sciamani siamo nel cuore della geografia poetica. Ma in fondo chi di noi non è andato a visitare i luoghi degli autori amati, per immaginarli con i loro occhi e a sentire i suoni che udivano?

 

Si torna alla realtà delle utopie tradotte nei fatti, nel racconto della casa di Michail Bakunin, teorico dell’anarchismo. L’edificio con l’annesso parco venne fatto costruire da suo padre, Aleksandr, storico e «filosofo di campagna» che «voleva uguagliare il Creatore» e quindi diede vita a un modello di un mondo che riproduce la Natura. In quel giardino oggi si sono insediati giovani anarchici che cercano di restaurare ciò che ne è rimasto. Golovanov ne prova simpatia e guarda con tenerezza questi ragazzi e ragazze che la memoria la ricostruiscono con le loro mani. Ma non si accontenta. In fondo il viaggio lo ha fatto per esplorare il rapporto fra letteratura e fatti, partendo da Fedor Dostoevskij e il suo capolavoro “I demoni” (ne è stata appena pubblicata la nuova traduzione italiana, a cura di Serena Prina, Neri Pozza editore). Bakunin sarebbe stato il modello del protagonista del romanzo, Nikolaj Stavrogin, l’uomo privo di ogni morale. Bakunin il diavolo? L’utopia che finisce nell’abisso di depravazione? Anche. Ma poi Bakunin è l’uomo che a Richard Wagner ricorda Sigfrido, per il suo coraggio, e il rivoluzionario che in una lettera allo zar spiega che cosa è la libertà occidentale preclusa ai russi, e sembra un testo scritto oggi, ma in un’altra parla di una Russia immaginaria che si è “inventato”.

 

Così come è inventata la città di Čevengur, luogo dell’utopia realizzata, raccontato da Andrej Platonov nell’omonimo romanzo scritto nella seconda metà degli anni Venti e censurato da Stalin. Ovviamente Čevengur non esiste in realtà, ma Golovanov con amici vanno lo stesso in viaggio a cercarla. Si inoltrano nella steppa e scoprono che gli abitanti del luogo vivono di sogni, che il tempo qui si è fermato e che prima o poi la città diventerà oggetto di studio degli specialisti delle “topografie letterarie”. Buon viaggio a tutti.