Questa dottrina sembra in decadenza. Nel suo libro, Michael Walzer invita a declinare il sostantivo che indica la corrente di pensiero come aggettivo. Che stemperi le rigidità delle varie ideologie

Il liberalismo non se la passa bene, almeno se si vuole indicare con la parola una dottrina di annosa tradizione o alcune formazioni politiche che l’abbiano assunta quale autodefinizione identitaria. Per tirarlo fuori dalle tristezze di una malinconica decadenza, uno dei più grandi pensatori di area liberale, il newyorkese Michael Walzer, ha scritto un libro che ha il tono di un accorato testamento etico: “Che cosa significa essere liberale”. La Raffaello Cortina Editore l’ha pubblicato nella collana fondata da Giulio Giorello e gli ha affibbiato un titolo che semplifica e quasi nasconde la principale tesi sostenuta, molto chiara: “The Struggle for a Decent Politics. On ‘Liberal’ as an Adjective”.

 

Walzer, che ha 88 anni, sembra voler tirare le fila di una lunga e combattiva esperienza. Chi non ricorda la sua frenetica opera di redattore di “Dissent”? Accademico a Harvard e Princeton, per citare due delle sedi più famose in cui ha insegnato, Walzer non si rassegna a farsi da parte indossando le vesti autorevoli di un distaccato e saggio politologo. E, pur dichiarando di sentirsi partecipe del filone di pensiero che ebbe in John Stuart Mill una delle sue riconosciute e seguite fonti, propone un esito tutt’altro che infausto per il bistrattato liberalismo.

 

Se si considerano i ceti dirigenti che si son detti liberali, i meriti accumulati restano in evidenza, malgrado le sconfitte o i disastri provocati. Oggi attraversano un periodo di enormi rischi e spaventose ambiguità. Taluni danno ormai per spacciata la democrazia liberale, almeno nei suoi canoni classici. Un osservatore acuto come Edward Luce non ha esitato anni fa (2017) a prospettare “Il tramonto del liberalismo occidentale” e, quando ancora non era esploso il conflitto scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina, aveva citato per assonanza una preoccupazione di Thomas Mann, che accusò parecchi degli intellettuali suoi contemporanei di nutrire una certa «simpatia per l’abisso». Ebbene, secondo il comunitarista Walzer – l’etichetta che più gli si attaglia – «liberale» non deve più essere preso come sostantivo, e neppure il liberalismo in quanto tale come teoria organica, ma dev’essere piuttosto declinato come aggettivo: un attributo che conferisce diversificate inflessioni al sostantivo cui si accoppia, configurando una sorta di galateo del far politica in netto contrasto con un’epoca di aspri conflitti e truci intolleranze.

 

Uno degli autori a Walzer più cari è il Carlo Rosselli di “Socialismo liberale” (uscito a Parigi nel 1930), proprio perché tenta una sintesi tra i valori alti e universali del liberalismo e gli obiettivi dei diritti sociali vivi nel sindacalismo di ispirazione marxista. Del resto, in un articolo del 1932 firmato Curzio, Rosselli – assassinato con il fratello Nello nel 1937 durante l’esilio francese, su mandato del regime fascista – era stato generosamente didattico e lungimirante: «Il liberalismo, prima ancora che una filosofia e una politica, è un atteggiamento dello spirito. Liberali non si nasce, si diventa. E si diventa attraverso uno sforzo incessante di conoscenza degli altri e di sé, attraverso un perpetuo esercizio delle proprie facoltà».

 

Solo il liberale combatte da uomo moderno, consapevole dei limiti e aperto a un sincretismo attivo, a un confronto continuo con impostazioni da accogliere nei loro aspetti più attuali, fecondi e universalmente realistici. Walzer stila un lungo elenco di possibilità dimostrando pianamente il beneficio e le correzioni che sarebbero derivabili da un liberalismo considerato costume ideale, teso a stemperare rigidità ideologiche e dogmi a senso unico. Il democratico liberale dovrà pertanto non enfatizzare il trionfo onnipotente della maggioranza. I socialisti liberali dovranno abbandonare logiche da avanguardie-guida delle storia, i nazionalisti liberali porranno rigorosi limiti al «narcisismo collettivo delle nazioni».

 

Fa impressione immettere nel lessico italiano il significato neutro di nazionalismo, che va inteso come «senso della nazione» e non nell’accezione negativa ormai annessa. Il fine cui puntare è la «coesistenza pacifica». Fatto è che, malgrado sia una qualità aggettivata, essere liberale non si traduce in una sorta di cosmopolitismo senza distinzioni. Anche il radicamento in una terra e l’affetto patriottico per i suoi caratteri e le sue eredità ha un valore positivo e si oppone a globalizzazione, cioè a un insieme di processi che hanno seminato un’eccessiva euforia e sembrano ormai declinanti dopo il breve successo riscosso (tranne nella dimensione tecnico-finanziaria). Walzer preferisce un internazionalismo che si esprima in un dialogo tra le nazioni. Se applicato alla labirintica architettura dell’Ue, l’ammonimento darebbe luogo a una condivisione che rispetti le esigenze buone avanzate da ogni membro e al tempo stesso incentivi la responsabilità collettiva, in linea con la Carta dei diritti fondamentali: «I cittadini dell’Ue sarebbero responsabili tutti insieme del benessere di tutte le nazioni europee».

 

In questo il fiducioso filosofo americano s’incontra con il saggio Jacques Delors, che parlò di un’Europa da costruire quale federazione di Stati nazionali. L’elenco include pure i comunitari liberali, le femministe liberali, gli intellettuali liberali, gli ebrei liberali. Ognuno di questi filoni non avrebbe, secondo Walzer, che da trarre vantaggi acquisendo atteggiamenti ricavati dallo spirito di una dottrina che ha dismesso la presunzione esclusiva di un tempo per farsi – e dovrà sempre più farsi – ispiratrice di uno stile e di una modalità di essere. Per certi versi Walzer ricorda un famosissimo saggio del 1932 di Bendetto Croce: “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Fu concepito per contrapporsi alle distruttive deità germanico-nordiche. Oggi ha il sapore di una sfida altrettanto ardua, un invito condensabile in un una frase analoga: perché non possiamo non dirci liberali. Liberali aggettivo, beninteso, meno impegnativo e meno religioso del vago richiamo evangelico di don Benedetto.