FENOMENI GLOBALI
Margot Robbie, Barbie femminista formato grande schermo
Amata, odiata, ripensata, da collezione. La più simbolica rappresentazione femminile di plastica diventa di carne. E approda al cinema con l’attrice australiana protagonista dell’attesissimo film di Greta Gerwig. Il sex appeal? È nell’imperfezione
Nessuna è più Barbie di Margot Robbie, l’attrice australiana protagonista dell’attesissimo film di Greta Gerwig. Non c’è donna vivente che più somigli alla statuetta sacra dei nostri tempi. A Barbie, la nostra kore: statuetta sacra o se non altro votiva al capitalismo e alla California. Vestale dei party e delle auto sportive. E poi biondissima.
E nessuna a Hollywood è più bionda e più statua di Margot Robbie, si diceva. C’era arrivata vicina Anne Hathaway, mora ma già platinata nel ruolo di regina bianca in “Alice in wonderland”, e ancor prima Amy Schumer: entrambe pensate come protagoniste della pellicola in uscita giovedì 20 luglio. Ma alla fine, dopo che i diritti cinematografici per la Sony sono passati alla Warner Bros, nel 2018, dopo varie peripezie, la scelta è ricaduta sulla Barbie incarnata: quella che Milo Manara ha definito sex symbol dei nostri tempi, insieme a Victoria dei Maneskin (quota barbie fluida e tatuata). Margot Robbie è la bella perfetta che stregò il mondo interpretando l’angelo di Victoria’s Secret in “The wolf of Wall street” e che ora, ben più d’un angelo, è una bambola. E che bambola.
Ma se nessuna è più Barbie di Margot Robbie, nessuna più perfetta e più bionda di questa trentenne australiana, nel resto del mondo c’è da dire che nessuna donna è più feticista d’una bambina. Che sceglie e cataloga Barbie in base a pettinature e vestiti. E talvolta sveste e spettina e mette il corpo di Barbie da un lato e l’abitino dall’altro. Taglia i capelli e smembra il corpicino e poi ne compra un altro. In una coazione a ripetere fra perversione e collezionismo che generano solo gli oggetti perfetti. Questo per dire che Barbie è il sex-appeal dell’inorganico sub specie pupa. È la perfezione che diventa una cosa connotata al femminile. Sempre perfetta nonostante le infinite evoluzioni. Troppe da tenere a mente. Ricapitolando, in principio era il rosa. Rosa shocking e biondo pin-up. Poi, tutto a un tratto, la ragazza di Los Angeles divenne indiana, hawaiana, sino-giapponese, abissina… (Benché sempre passata per i ferri d’un chirurgo plastico americano). Si fece ancora ciclista, centaura in moto, paralitica in carrozzina. Si può dire ne abbia viste di ogni, la ragazza. Eppure è lei. Sempre lei. Alta, bionda, magra, perfetta. Dalle mille personalità più di Zelig, Barbie è sempre sé stessa. Perché così la vogliamo, così la pensiamo: bionda e perfetta; Margot Robbie: la Barbie che dopo mille vite di plastica si fece carne. Divenne persona.
Dalle stelle alle stalle, dal tacco alla Birkenstock, dai Ken ai “katzoni”
Per realizzare il mondo femminista di femmine tutte rose senza prole né ferri da stiro, Greta Gerwig ha chiesto consulenza nientemeno che ai suoi patriarchi. A Francis Ford Coppola: per gli sfondi opachi e i cieli; a Peter Weir: per ricreare l’atmosfera da studio televisivo; a Wes Anderson: per l’utilizzo delle miniature. E questi sono solo gli aspetti tecnici (cose da maschi). Quanto alla trama, quel che sappiamo è che la storia s’inverte. In sintesi: Barbie viene via dal mondo perfetto di Mattel e diventa persona. E detta così, siamo un po’ in aria di montagna che partorisce il topolino. Tanta consulenza tecnica per un plot prevedibile. Tanto rosa per nulla. (Del resto, che storia puoi inventare su una sciroccata in rosa shocking?).
Comunque, la storia è quella di una spilungona perfetta – si diceva – che vive nell’universo Mattel di Barbieland. Un mondo ideale dove si canta e si balla. Qui tutto quello che per noi sarebbe un battistiano inferno rosa, è un paradiso. A Barbieland non esiste forza di gravità. E la vita, come le cosce, non ha smagliature. Fondamentalmente le Barbie non fanno niente. Magari prendono il sole, sculettano, speculano su creme per la faccia che pure non servono (essendo le Barbie di base perfette). Ma non è questo a rendere il mondo incantato un inferno, almeno per noi. Il punto è un altro.
Fra le Barbie che a mille ce n’è e tutte perfette – la bionda, la bruna, “la grassotta, la magrotta (…) purché porti la gonnella” – spunta ogni tanto Ken. E cioè un maschio che non è proprio un Don Giovanni avvezzo al catalogo di bambole bionde, brune, grassotte, magrotte. Perché Ken è sì circondato d’eterogenea figaggine, ma piuttosto inutilmente. Promemoria: Ken, che qui è Ryan Gosling, è l’uomo dalla testa ossigenata e dal pube vacante. Colui che non ha appendici perché è egli stesso appendice. Ovvero supplemento in un mondo dove il maschio è più bambola della femmina. Un mondo ideale, per certi versi. E perfetto, per certe donne. A Barbieland non ci sono quote ma assolutismo rosa. E poiché l’uomo nasce vinto e la donna comanda, la guerra dei sessi non usa. Non ci sono scontri e non c’è dialettica. È tutto perfetto, appunto.
Ma torniamo alla trama. In questo mondo perfetto, in questa Città delle donne compiuta – dove non c’è Mastroianni o il femminaro “Katzone” ma Ken – a un certo punto accade che il collo del piede di Robbie si schiacci: le vengono i piedi piatti. Cui segue la buccia d’arancia e chissà cos’altro la induca a strillare, come vediamo nel trailer. Barbie comincia a farsi persona. L’oggetto diventa soggetto. E qui il soggetto – Margot Robbie – è uno di quelli che hanno paranoie più antiestetiche della cellulite, con più crateri in testa che sull’anca. La donna perfetta, ormai paranoica, crolla, strilla, si dispera. Sicché viene spedita nel mondo reale da un suo alter-ego spettinato, che come in Matrix la pone dinanzi al dilemma pillola rossa o blu: tacchi a spillo o Birkenstock Arizona. La Barbie, che se ne starebbe in sdraio a sbadigliare coi cetrioli sugli occhi, è costretta alla Birkenstock. Scende dal cielo e s’incammina con Ryan Gosling nel mondo reale, quello in cui i maschi – ahinoi – non sono barboncini toy da tenere al guinzaglio o castrati con gli stivali da cow-boy, ma sono i soliti – sia in bermuda sia in giacca e cravatta – i soliti maschi. Ovvero i soliti stronzi e problematici. Talvolta beceri. Non più Ken, insomma. Non castrati ma femminari e “katzoni”.
La caduta nel tempo. Dove tutto può succedere
Barbie è ormai fuori dalla scatola Mattel. Rigorosamente rosavestita, sempre sé stessa, coi costumini Taroni e gli abitini vintage di Chanel (di cui Robbie è brand ambassador e per cui Lagerfeld disegnò una linea Barbie nel 2009). Tra borsette e sete, Margot Robbie si porta dietro il pupazzo. Ryan Gosling la segue in questo brutto mondo dove i passanti li deridono per le mise e le altre ragazze non sodalizzano («non gioco con Barbie da quando avevo cinque anni», le dice una teenager nel trailer). Qui la gente è meno bella, non balla, non canta ma porta il muso. I maschi, poi, hanno tutta l’aria di incravattati arrivisti. Quando non di “katzoni” che rifilano pacche sul culo (come accade alla povera Barbie Margot). Nel mondo reale s’abbandona la vita comoda da sleepover. Le femmine sono rivali; i maschi, trogloditi. È una terra dove si lotta, si cade, si muore. Può succedere di tutto, ogni giorno è una sorpresa. Gli armocromisti pagali quanto vuoi ma non valgono un’oncia di Jacqueline Durran: la costumista che per far quadrare i colori in Barbieland ha creato una tavolozza di tanti rosa, e in quella combinazione ci ha fatto rientrare i costumi.
La Barbie di Greta Gerwig è dunque fantascienza di tipo camp. Con le donne al comando che se la spassano. È tutto fantastico, tutto perfetto, tutto rosa. Eppure manca qualcosa. E forse manca proprio l’imperfezione, l’asimmetria. Il sale dello spasso che è la guerra dei sessi. Quella guerra che in fondo ci diverte e ci mette in moto la mattina.
Ecco, il nostro mondo è un mosaico di drama. Spericolato, maleducato. E non sappiamo sino a giovedì se a Barbie piacerà. Quello che possiamo dire noi è che – tolta la pacca sul culo – siamo forse un po’ più divertenti dei maschi senza attributi. Perché se perfetto è rosa o castrato, non ci interessa. Ché se la buccia d’arancia si cura, al pube vacante non c’è rimedio.