Solo il 10 per cento dei 56 mila detenuti nel nostro Paese rappresenta un pericolo sociale o per la sicurezza

È esplosa di nuovo la questione delle carceri italiane. Sovraffollamento, congestione (come la definisce Luigi Manconi), mancanza di servizi, di bidet per le donne, pochi psicologi, poche attività di lavoro e di socializzazione. Grande sofferenza e grande impotenza.

 

Il ministro Carlo Nordio, di ispirazione garantista e liberale, ha promesso di intervenire: trasformiamo le caserme dismesse in prigioni, aumentiamo gli organici. Come spesso gli capita, sembrano sortite irrealizzabili e solitarie.

 

Ma poi: la priorità sono gli spazi ulteriori da reperire o piuttosto una popolazione carceraria abnorme, che potrebbe ricevere trattamenti alternativi alla galera?

 

Quest’ultima mi pare la vera questione. Il ministro Andrea Orlando iniziò a muoversi in questa direzione. Solo il 10% dei 56 mila detenuti nel nostro Paese rappresenta un pericolo sociale o per la sicurezza. Molti sono, invece, reclusi per reati minori, con condanne inferiori ai 3 anni. Altri sono vicini alla conclusione della pena o devono scontare il reato di immigrazione clandestina. Infine, ci sono quelli in attesa di giudizio. Conseguenza di una pratica incivile di arresto, considerata la condizione migliore per far collaborare l’imputato.

 

Uno Stato democratico misura se stesso circa il trattamento che riserva alle minoranze, alle fragilità, alle posizioni di debolezza.

 

L’imputato e il condannato (tranne nel caso siano al centro di un’organizzazione mafiosa o terroristica) si trovano nel punto di massimo squilibrio tra la forza e la debolezza. Sono soli di fronte al giudice che decide sulla loro vita, avendo dietro le spalle tutta la forza dello Stato, della società, dell’opinione pubblica normale, che come una muta si aggrega per colpire l’errore, la devianza, il cattivo esempio.

 

La solitudine, che porta a tanti suicidi, come è accaduto in questi giorni a Torino e ogni anno durante il vuoto nel mese di agosto, non è solo il recinto di mura che separa chi sta dentro dalla vita che si svolge fuori.

 

È la percezione di una condizione indifesa, esposta, manomessa. Sottoposta a decisioni, regole, condizioni imperscrutabili: oggetto inerte in balia della sorte.

 

Tutto ciò che si può fare per evitare questo abisso dell’anima, dando alla pena un carattere rieducativo e più umano, va fatto. Soprattutto quando il reato non consiste nella morte di un’altra persona (fattispecie secondo me nella quale si sono esercitate grandi indulgenze), ma ha procurato un danno economico, alla stessa salute di chi lo ha commesso, alle regole di funzionamento della società. Sono cresciuto in un ambiente di avvocati penalisti.

 

Mio padre, repubblicano, esercitava questa professione. Ho ascoltato magnifiche arringhe in corte d’Assise di De Marsico, Annibale Angelucci, Cassinelli, Vassalli e dei più giovani di allora; appunto mio padre Vittorio, De Cataldo, Gino Trapani, Luciano Revel e Nicola Madia, turbato per tutta la vita dalla condanna di Raul Ghiani, che aveva difeso appassionatamente.

 

Ricordo la lezione di tutti loro: meglio dieci colpevoli fuori che un innocente ingiustamente in prigione. Appunto. Il valore della vita e il sacro rispetto della libertà individuale.