Mafie
Sacra Corona Unita, meno omicidi, più agganci con la politica: il nuovo corso della mafia pugliese
La parola d’ordine è sommersione: ai morti ammazzati preferisce l’imprenditoria della terza generazione di boss. È diventata pervasiva e avvicina professionisti compiacenti per ottenere benefici
È silente, ma c’è. Ha abbandonato le pistole fumanti e i morti ammazzati trovati ancora caldi, un giorno sì e l’altro pure, sulle strade asfaltate dei centri e nelle contrade polverose delle campagne salentine, preferendo al gangsterismo degli anni Novanta l’imprenditoria della terza generazione di boss.
Mafiosi, figli e nipoti di mafiosi, che continuano – pur in sordina, ma con la pervasività e le ramificazioni tipiche della criminalità organizzata affarista di nuovo conio – la storia della «quarta mafia». Quella Sacra Corona Unita (Scu) fondata da Pino Rogoli, nata nel maggio 1983 per fermare la proliferazione sul territorio pugliese dei clan napoletani e delle cosche calabresi, da cui gli uomini d’onore salentini hanno finito per mutuare codici e riti d’affiliazione. Caratterizzandosi poi per l’orizzontalità: nessuna cupola, ma una struttura di tipo clanico, molecolare, verticistica all’interno delle singole cosche, ma paritaria verso l’esterno. In grado di fronteggiare, per via del suo tipico camaleontismo, retate e blitz di forze dell’ordine e magistratura. La flessibilità, insomma, garantisce una sopravvivenza rispetto all’attività repressiva dello Stato, che le nuove leve tentano a tutti i costi di evitare e di non destare. S
ta in questo la differenza con i gregari e i vecchi capibastone, finiti, proprio a causa delle bramosie sanguinarie, tra le maglie della giustizia. Ma ai quali, pure, i nuovi affiliati non mancano di somigliare, almeno per il marchio di fabbrica: l’appartenenza alla Scu, con tutto il corollario evocativo che ne discende e che serve in chiave intimidatoria e di controllo del territorio.
Nel maggio scorso, l’ultima operazione dei carabinieri del Ros, guidati dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce, ha rischiarato i contorni della nuova generazione di mafiosi. Capace di portare alla propria corte professionisti qualificati, persone arruolate tra le fila di polizia penitenziaria e Guardia di finanza, politici e medici compiacenti, che garantiscono la penetrabilità di ambienti che si vorrebbero impermeabili. Perché così si riescono a ottenere notizie dal contenuto riservato, buone alla causa degli affiliati, e certificazioni mediche posticce, referti che attestano patologie e situazioni d’incompatibilità con la detenzione inesistenti nella realtà, ma sufficienti per far spalancare le porte del carcere. E restituire libertà personale e di manovra soprattutto ai vertici dell’organizzazione.
L’operazione “Filo d’Arianna”, come è stata ribattezzata l’indagine sul clan Politi, tra i più attivi del Salento, ha consentito di documentare la pervasività della frangia monteronese della Scu, attiva nel Nord del Leccese (specie tra Monteroni, Carmiano e Arnesano), facente capo a Saulle Politi, oggi in carcere, e propaggine della storica cosca mafiosa legata ai nomi dei fratelli Mario e Angelo Tornese. L’attività investigativa – che ha portato all’arresto anche di Gabriele Tarantino, considerato il nuovo capoclan dopo che il precedente era finito in manette – ha permesso di rivelare l’ultimo mantra della Scu: devota più all’economia che al sangue, capace di allungare i tentacoli dappertutto, abile ad infilarsi negli interstizi e procurarsi entrature nelle istituzioni. Il tutto grazie ai rapporti con professionisti compiacenti, appunto, a cui i mafiosi danno del tu.
Così accadeva con tre agenti della Penitenziaria (uno contestualmente assessore comunale di un paese del Leccese), individuati dagli inquirenti come le talpe che avrebbero consentito agli affiliati di avere occhi e orecchie tra le mura del carcere. Allo stesso modo con i medici dell’istituto, autori di una raffica di referti in grado di condurre alla scarcerazione delle punte di diamante del clan, e, infine, con un agente della Finanza di stanza a Brindisi, accusato di essere un fiancheggiatore.
Ecco, dunque, profilarsi la strategia della sommersione: cioè un controllo sommesso del territorio, descritto dal procuratore generale Antonio Maruccia come la «cartina di tornasole della mafiosità dei gruppi, dotati ormai di una maturità tale da imporsi sul territorio in maniera silente».
Come nel caso del clan Coluccia, che diceva della propria roccaforte, la frazione di Noha del Comune di Galatina, che fosse simile a Casal di Principe, e dei suoi affiliati, mutatis mutandis, che fossero come i Casalesi. Per il procuratore Maruccia, il clan affianca alle attività illecite quelle imprenditoriali. Nonostante il core business resti il traffico di stupefacenti. A sua volta, però, caratterizzato da un salto di qualità: i padrini leccesi stringono accordi con albanesi e sudamericani. E con la consorteria ’ndranghetista dei Mammoliti “Fischiante”, di San Luca, egemone nel traffico di cocaina, con la quale avrebbero scambiato partite di droga, concordate su telefoni criptati. Testimonianza del nuovo modus operandi della Scu. Che si sostanzia, per gli inquirenti, anche nell’interesse per la politica.
Lo dimostrano le elezioni del 2021 in un paese dell’hinterland salentino: qui, intercettato ai domiciliari, Tarantino dà il proprio placet a una candidata connessa a una lista poi vittoriosa, in vista di un tornaconto che non è dato sapere se si sia o meno concretizzato. Il fatto comunque incarna – come altri casi in cui sono coinvolte persone che a vario titolo gravitano nei Palazzi di Lecce e provincia – il nuovo corso della Scu. Che, sostiene Maruccia, è sempre più incline «a influenzare l’esito delle elezioni locali, soprattutto nei Comuni di piccole dimensioni, al fine di assicurarsi appoggio politico e amministrativo».