Scenari
La mano di Xi Jinping dietro i nuovi Brics: ecco qual è la strategia della Cina
L’allargamento del gruppo a sei nuovi Paesi, tra cui Iran e Arabia Saudita avvantaggia il piano di Pechino: creare un polo alternativo al G7 guidato dagli Stati Uniti
I Brics non vanno in competizione con nessuno, ma è ovvio che questo processo di nascita di un nuovo ordine mondiale trova anche dei feroci oppositori». Così si è espresso Vladimir Putin, in videoconferenza, durante il vertice dei Paesi Brics a Johannesburg, nell’agosto scorso. In questa occasione il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha annunciato, a sorpresa, l’ingresso dal 1° gennaio 2024 nel gruppo di Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) anche di Argentina, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Egitto e Iran.
I “Brics 2.0” comprenderanno circa 3.7 miliardi di abitanti pari al 47% della popolazione e rappresenteranno circa il 36% del Pil globale. Il guanto di sfida al mondo Occidentale e al G7 è stato lanciato. Il principale fautore di questo ampliamento e il maggiore beneficiario, però, non è la Russia, ma la Cina. Il governo cinese, infatti, da anni progetta la creazione di un nuovo ordine mondiale slegato dall’unilateralismo americano. Per raggiungere questo obbiettivo Xi vuole rafforzare un blocco di Paesi alternativo al G7. I sei Paesi neofiti all’apparenza sembrano eterogenei: repubbliche presidenziali insieme a governi teocratici, sciiti con wahabiti, visioni opposte del mondo. In realtà sono legati tra loro da un filo rosso. Rosso come la bandiera cinese. È, infatti, lo stretto rapporto con Pechino che li accomuna. In primis l’Arabia Saudita è sempre più vicina alla Cina alla luce degli accordi commerciali siglati a dicembre scorso con Xi. Tra i quali lo sviluppo della rete 5G saudita affidata alla cinese Huawei e la possibilità, fondamentale per Pechino, di pagare in renminbi e non più in valuta Usa il petrolio importato da Ryad.
In Argentina, invece, la Cina sta investendo soprattutto per lo sviluppo dell’industria estrattiva del litio, di cui il Paese sudamericano possiede le seconde riserve al mondo. L’azienda cinese Ganfeng Lithium ha acquisito l’argentina Lithea che possiede importanti giacimenti nel Paese; la Tibet Summit Resources investirà circa 1.7 miliardi di dollari in due nuovi progetti estrattivi. Passando all’Etiopia, qui operano circa 150 imprese cinesi, tra cui quelle che hanno realizzato la linea ferroviaria tra la capitale Addis Abeba e il porto di Gibuti. Il governo di Pechino, poi, ha contribuito a finanziare con prestiti per 652 milioni di dollari la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) la diga sul Nilo, vitale per produrre energia idroelettrica. La costruzione di questa diga è fortemente osteggiata da un altro nuovo membro dei Brics: l’Egitto. Il governo di Abdel Fattah Al Sisi è preoccupato per l’impatto di questa infrastruttura sulla portata del Nilo che metterebbe a rischio siccità decine di milioni di egiziani. A luglio i premier di Egitto ed Etiopia si sono incontrati per risolvere in maniera diplomatica la questione promettendosi di trovare un accordo entro i successivi quattro mesi. Accordo caldeggiato dalla Cina che dell’Egitto è il quarto creditore mondiale; l’interesse cinese è mantenere buoni rapporti con Il Cairo vista l’importanza del Paese in Medio Oriente e il suo controllo sul canale di Suez.
La diplomazia è servita alla Cina anche per riaprire dopo decenni i canali diplomatici tra Ryad e Teheran. L’inizio di una distensione tra le due potenze mediorientali è uno dei maggiori successi di politica estera di Xi. Allontanando la potenziale minaccia iraniana, Pechino allontana allo stesso tempo da Ryad gli Usa, storici garanti della sicurezza della monarchia saudita. L’Iran, Paese escluso finora da tutti i consessi internazionali, dal canto suo può esultare per questa prima “riabilitazione”.
L’ingresso dell’Iran nei Brics, fortemente voluto da Putin, non scontenta neanche la Cina per la rilevanza geostrategica del Paese. Teheran controlla, assieme all’Oman, lo stretto di Hormuz, da dove passa un quarto del petrolio globale, e ha aperto recentemente il porto di Chabahar alla “Nuova Via della Seta”. Non è di minore importanza l’ingresso nei Brics degli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi hanno svolto nell’agosto scorso le prime esercitazioni militari congiunte con l’esercito cinese. Inoltre, Abu Dhabi, invece dei caccia americani F-35, acquisterà 12 aerei cinesi L15 e ulteriori 36 nei prossimi anni. Risulta chiaro, perciò, come la Cina stia cercando di incrementare l’influenza su questi Stati a discapito di quella statunitense. Il processo di integrazione dei nuovi membri dei Brics, però, non si preannuncia privo di ostacoli. Se da una parte questi sono accomunati dalla vicinanza con Pechino, dall’altra tra loro ci sono notevoli differenze e contrasti. La disputa sulla costruzione della diga Gerd tra Etiopia ed Egitto, seppur indirizzata verso una soluzione diplomatica, non è affatto risolta; così i rapporti tra Arabia Saudita ed Iran avranno bisogno di molti ulteriori bilaterali prima di un piena normalizzazione.
Perdipiù, in Argentina, dove ad ottobre si terranno le elezioni presidenziali, non c’è un consenso unanime all’ingresso nei Brics. La candidata di centro-destra Patricia Bullrich ha già annunciato che in caso di vittoria straccerà la domanda di adesione. Non basterà perciò solo la volontà cinese di integrare questi Paesi all’interno del blocco Brics per creare un’unione stabile e coesa che faccia da contraltare al G7. Ci vorrà del tempo. Tempo che i Paesi Occidentali non potranno perdere sottovalutando il guanto di sfida lanciato dai nuovi Brics capitanati dalla Cina.