Analisi
«Il salario minimo serve a demolire i contratti pirata»
La misura dovrà avere le caratteristiche di complementarità e sussidiarietà rispetto agli accordi di settore per tutelare la libertà e dignità del lavoro stabilite dalla Costituzione
Il salario minimo rappresenta la retribuzione minima o paga oraria, giornaliera o mensile, che in molti Paesi i datori di lavoro devono garantire ai lavoratori per una determinata quantità di lavoro e non va confuso con il reddito minimo, finalizzato invece a garantire una soglia vitale a tutti i cittadini (anche non lavoratori) in relazione ad uno stato di bisogno accertato.
Le prime leggi in materia risalgono ad oltre un secolo fa e furono introdotte dal Regno Unito, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. Oggi sono in vigore in molte nazioni del mondo. Si tratta di una questione che si collega ad analisi macroeconomiche molto complesse e variegate. Secondo alcuni la misura aumenterebbe la povertà e la disoccupazione (in particolare tra i soggetti non qualificati o senza esperienza) oltre ad essere dannosa per le imprese. Secondo altri, invece, migliorerebbe la condizione dei lavoratori, riducendo la povertà e le disuguaglianze, e indurrebbe le imprese ad essere più efficienti.
Nonostante la sacrosanta necessità dello strumento in astratto, vi sono oggettivamente dei rischi visto che un salario minimo troppo alto potrebbe, ad esempio, diminuire le ore lavorate, ma potrebbe anche incentivare il ricorso al lavoro irregolare con un aumento di quello in nero. Il salario minimo potrebbe inoltre indebolire il potere contrattuale dei sindacati, tant’è che i Paesi che non lo contemplano sono quelli con i minimi di settore più alti. Anche sul piano macroeconomico tutto è opinabile: vero è che in un libero mercato qualsiasi limitazione introdotta dallo Stato ne limita il funzionamento, creando un divario tra lavoratori disponibili e richiesti (e quindi disoccupazione) ma al contempo nessun mercato del lavoro libero e totalmente deregolamentato ha mai raggiunto l’obiettivo teorico della piena occupazione.
Nella maggior parte dei Paesi europei il salario minimo viene fissato in maniera unica e universale dalla legge. Italia, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia invece non lo hanno adottato ex lege ed è la contrattazione collettiva a prevedere settorialmente la misura dei minimi di retribuzione. Ciò è dovuto al ruolo forte dei sindacati, tant’è che quelli italiani hanno osteggiato la prima bozza della direttiva europea in materia, ma hanno condiviso la versione finale in quanto non intacca il sistema delle relazioni industriali. Tuttavia, bisogna considerare che i contratti collettivi sono numerosissimi (quasi 900), con retribuzioni diverse per uno stesso lavoro, e che vi sono settori non coperti. Ai problemi storici della contrattazione collettiva se ne sono aggiunti nuovi come la moltiplicazione delle tipologie di lavoro legate alla transizione digitale, la moltiplicazione dei soggetti contraenti e l’esistenza di contratti collettivi “pirata”.
L’art. 36 della Costituzione stabilisce il diritto di ogni lavoratore «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa», senza individuare una misura concreta. La scelta del Costituente fu fatta per non ostacolare l’azione sindacale in quanto i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali registrate e dotate di personalità giuridica, avrebbero dovuto avere efficacia erga omnes, vale a dire obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. La mancata attuazione dell’art. 39 aprì il problema dei tanti lavoratori che non potevano beneficiare dell’applicazione di un contratto collettivo. La giurisprudenza, tuttavia, nel corso del tempo ha svincolato i due precetti sancendo che nel caso della mancanza di una retribuzione pattuita dalle parti, è il giudice che la determina ricavandola proprio dai minimi tabellari dei contratti collettivi. Il legislatore italiano ha tentato di intervenire per la prima volta sul tema con il cosiddetto jobs act del 2014, che conteneva una norma di delega al governo finalizzata all’introduzione di un salario minimo legale nei settori non regolamentati dai contratti collettivi, ma il governo preferì non procedere per la ferma opposizione sindacale.
Il tema è tornato d’attualità con le ultime proposte del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle che si differenziano per il quantum del salario orario, 9 euro netti nella proposta del Pd (da incrementare secondo gli indici Istat), 9 euro lordi nel disegno del M5S (da incrementare secondo l’indice Ipca). Tuttavia, questo tipo di intervento non tiene conto del fatto che il salario complessivo di un lavoratore non dipende solo dalla sua paga oraria ma anche e soprattutto dalla quantità di ore lavorate nel corso di un mese o di un anno. Secondo l’Ocse una soluzione che eviti il ricorso al lavoro irregolare, aumentando troppo il costo per le imprese, e che raggiunga l’obiettivo di sostenere il reddito da lavoro povero, in linea con l’esperienza degli altri Paesi europei, prevederebbe un salario minimo orario compreso tra i 5 e i 7 euro lordi.
Se il quadro è questo, al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni rispetto a “meline” attuali del centrodestra o ritardi o amnesie dei precedenti governi di centrosinistra, la strada concreta sembra obbligata anche sul piano costituzionale. Occorre una contrattazione seria e serrata tra governo e parti sociali che porti a un salario minimo che sia però rigorosamente «complementare e sussidiario» rispetto alla negoziazione settoriale, che valga cioè solo se non esiste una soglia contrattuale. Il tutto in modo che possa finalmente esserci quella «libertà e dignità» di cui parla l’articolo 36 della nostra Costituzione.